di Andrea Metta 

Cosa significa arrivare in Italia senza documenti?

A primo impatto la risposta potrebbe variare in base a chi legge la domanda. Purtroppo si assiste, come in tanti temi attualmente, ad uno schieramento di tifoserie. Due fazioni che rimproverano l’un l’altra l’incapacità di empatia o di analisi della realtà. Chi ha ragione? Non è importante stabilirlo, perché nel frattempo i veri protagonisti che vivono la situazione soffrono. Nessuno, infatti, se non in pochi, chiede davvero come stanno le cose a chi si dovrebbe chiedere.

Cosa emerge se si parla con il “clandestino”

Questa figura di cui tanto si vocifera e che tanto viene dileggiata è una persona. Una persona, che, spesso, per motivi anche lontanamente immaginabili, è senza documenti all’interno di un Paese che non è il suo. È irregolare. E quindi? Quindi o deve venire espulso o avvia il percorso per ottenere il permesso di rimanere. Cosa significa realmente? Significa intraprendere un cammino lungo e travagliato che lo sposta da una parte all’altra dell’Italia, in diverse strutture di accoglienza e a svolgere diversi lavori nella speranza di venire assunto per poter rimanere qui. Altro dubbio, come fa ad avere un contratto senza documenti? Non si potrebbe. O meglio, bisogna sperare di rientrare in uno dei programmi di protezione o di avere lo status di rifugiato. Non sempre basta, anzi, perché i tempi sono estremamente lunghi e si rischia che nel frattempo scada anche il permesso temporaneo. 

A Saluzzo, durante il nostro reportage sul caporalato, abbiamo incontrato diversi ragazzi che cercavamo di intervistare per conoscere le loro storie. Era complicato, in quanto essi avevano un solo pensiero fisso che riconduceva qualsiasi argomento verso un unico obiettivo, quello di raccontare le loro difficoltà nell’avere i documenti per poter lavorare. Nel 2019, uno di loro ci dà appuntamento in un bar dopo lavoro. Era in mano alla sua avvocatessa di Torino ma in commissione aveva ricevuto il suo primo negativo. Significa che per la legge non aveva motivo per rimanere in Italia. Tenta il ricorso, in quanto ne ha diritto, ma la data stabilita è prevista per il 2023. Sì, quattro anni dopo la prima commissione. Nel frattempo questo ragazzo cosa dovrebbe fare? La frustrazione diventa enorme, comincia una sorta di rassegnazione, sente quasi di essere sconfitto. Non comprende la motivazione dietro un tempo così ampio. Allo stesso tempo riesce ad avere il prolungamento dello status di rifugiato per un anno. A differenza di altri è già in una situazione migliore, ma come si fa a pensare ad una vita non sapendo dove si è l’anno dopo? 

Si sente straniero, si sente in colpa anche se non ha mai avuto problemi in Italia. «Non ho mai usato erba» dice, come a voler sottolineare la sua bontà. Ritiene che chi si comporta bene non riceve di più di chi invece cade in problemi con la legge. 

Non è l’unico a riportare questa condizione.

Un altro ragazzo è in una situazione simile, ma con qualche difficoltà in più. Vive sempre a Saluzzo, accolto dalla Caritas, e racconta di essere stato più volte chiamato dall’agenzia del lavoro per un’offerta. Porta con sé tutta la documentazione in possesso, tra cui un permesso scaduto, l’ultimo ricevuto, per essere poi rimandato sempre indietro. Ha bisogno di un permesso vigente per avere un contratto, ha bisogno di un contratto per avere un permesso vigente. Questo ragazzo rimane senza lavoro, sentendosi “rifiutato”.

I documenti sono il reale oggetto del desiderio di chi è straniero in Italia, che spesso trova muri altissimi per riuscire ad averli, nonostante la grande volontà. 

Le loro facce raccontano più di qualsiasi cosa, le loro storie documentano più di ogni opinione. Questo è quello che emerge parlando con i protagonisti di una narrazione descritta solo da chi la guarda e non da chi la vive. La soluzione? Forse ascoltare di più e valutare meno.