• Articolo di Hajrudin Hromadžić (link all’articolo originale, uscito per NOMAD l’11 settembre 2021)
  • Traduzione a cura di Adna Čamdžić 

Negli ultimi anni la cittadina di Bihać, situata nel Cantone di Una-Sana al confine tra Bosnia Erzegovina e Croazia, è diventata il nuovo crocevia della cosiddetta “rotta balcanica”, il punto di partenza del game per migliaia di persone in transito provenienti da paesi quali Afghanistan, Bangladesh, Pakistan, Algeria, Siria, Iran, Iraq.
Proponiamo un articolo di Hajrudin Hromadžić, professore di sociologia presso l’Università di Filosofia di Rijeka, sulla questione “Bihać e migranti”.

Storie dal vicinato

È una giornata di inizio agosto, sono seduto al tavolo della sala da pranzo a casa dei miei e ascolto il suono di un servizio televisivo dalla stanza accanto. Si parla di un tema ormai longevo, ma dai caratteri nuovi, un tema che rimarrà attuale per molto tempo ancora, almeno per un’intera epoca storica. Si tratta della cosiddetta crisi migratoria. Sono più di settanta milioni le persone in movimento nel mondo e che possiedono lo status di rifugiato. Di queste, la metà sono bambini e minorenni. 

Da quanto sento, concludo che il protagonista della trasmissione televisiva appena menzionata è evidentemente un comandante di una delle unità della polizia di frontiera bosniaca. L’uomo sta descrivendo al team di giornalisti, in modo esauriente e approfondito, una tipica giornata di lavoro di un’unità speciale della polizia di frontiera impegnata nella “caccia ai migranti”. Descrive in modo dettagliato la natura di questa “caccia”. Somiglia un po’ agli scenari dei film di guerra, ma è in linea con “gli standard, le direttive e le politiche di sicurezza europee”.

Quindi fa accomodare i giornalisti in un SUV della polizia e li porta direttamente su uno dei luoghi della “rotta migratoria”, dove avvengono gli attraversamenti illegali della frontiera statale. Racconta in modo aperto e scherzoso alcuni aneddoti. Per esempio, capita spesso che lo stesso migrante venga catturato più volte nel corso della settimana, “processato e riportato a casa”, ma spesso conosce già così bene la polizia da chiedere di essere condotto per l’interrogatorio da “Davor, e non da Damir”, perché “Davor è un uomo migliore”. 

Ascolto, guardo e non riesco a crederci. Tutto ciò che vedo e sento mi sembra estremamente perverso. La trasmissione va in onda su uno dei canali bosniaco-erzegovesi a diffusione nazionale. Ascolto/guardo da Bihać, una città al confine con la Croazia che molti in Europa oggi riconoscono come uno dei “punti caldi della rotta migratoria”, alle porte dell’Unione europea. 

Continuo a seguire la trasmissione, e mi sembra un agit prop mediatico-propagandistico del tutto privo di significato, un tentativo di dare l’impressione che “lo Stato stia facendo il suo lavoro” e “difenda i confini” – in una città dove negli ultimi anni migliaia di profughi, sfortunati, provenienti da decine di Paesi asiatici e africani hanno soggiornato illegalmente. I media raccontano le proprie storie, costruiscono villaggi di Potemkin(1), mentre la realtà sociale vivente testimonia qualcosa di completamente diverso. 

Chi sono i cosiddetti migranti?

Sono ovunque in città, il più delle volte in grandi gruppi. In centro, nel vicolo accanto allo stadio, nei parchi, in tanti punti lungo il fiume. A volte danno l’impressione di oziare in modo apparentemente sereno, altre volte hanno un’evidente fretta. Preparano gli zaini, distribuiscono acqua e viveri, allacciano le scarpe… È chiaro che si preparano a partire per il monte Plješevica. Verso un’avventura pericolosa, pronti ad affrontare un nuovo game. Se sono fortunati, riusciranno ad attraversare a piedi il monte, entreranno in Croazia, cercaranno la strada per proseguire verso la Slovenia, e poi verso la “vera” Europa… E se non avranno fortuna, non sarà di certo piacevole l’incontro con la polizia croata o slovena.

Percosse, sequestri di telefoni, denaro e altri oggetti di valore, i cosiddetti push-back… Sono ormai all’ordine del giorno nelle relazioni di diverse organizzazioni umanitarie nazionali e internazionali – come per esempio Border Violence Monitoring, che da qualche anno ormai pubblica rapporti sulla violenza contro rifugiati e migranti nelle zone di frontiera – e dei lavori di ricerca dei media indipendenti sull’atteggiamento della polizia nei confronti dei migranti. Dei guardiani della “Fortezza europea” e della cosiddetta area Schengen. 

Nel contempo, il Ministro dell’Interno croato Davor Božinović afferma freddamente che la polizia croata ha portato a termine 8.500 “azioni di successo” per arrestare gli attraversamenti irregolari delle frontiere nazionali. E tutto questo avviene con la tacita benedizione della “UE democratica”, che ha la bocca piena di diritti umani, ma in realtà sta perseguendo una politica aggressiva nei confronti della popolazione rifugiata. Il tutto all’insegna della sicurezza e dell’incolumità pubblica.

I migranti sono per la maggior parte anonimi, persone presenti-assenti prive di voce, privi dei tratti classici dell’identità collettiva. Nella percezione del pubblico il migrante è un essere senza nome e senza identità individuale. È in genere un personaggio ambivalente in costante movimento. Per questo è ridotto allo stato biologico della “nuda vita” e trascinato attraverso statistiche burocratico-amministrative rigide e disumane. 

Al posto di un migrante – che ha superato con successo un altro livello del game nel suo viaggio di migliaia di chilometri, un viaggio che dura da mesi se non anni – ne arriva un altro. Nuovo, diverso, eppure in qualche modo simile, quasi uguale. I migranti sono le vittime più visibili e tragiche della nuova, crudele geopolitica mondiale del XXI secolo. E alcuni di questi sono rimasti intrappolati in Bosnia, nella “terra di nessuno”. 

Da tempo ormai orbito attorno a questo tema – chiamiamolo “Bihać e i migranti” – mi preparavo a scrivere il testo per “Nomad”. Ma l’argomento in sé si impone semplicemente, emerge in primo piano, è impossibile aggirarlo. Tanto è stato già detto al riguardo. Politici, media, antropologi, sociologi, medici, associazioni della società civile e dei diritti umani, artisti, attivisti, volontari internazionali, residenti locali e intellettuali ne parlano in continuazione…

E ci giriamo tutti attorno. È uno di quegli argomenti difficili e sfuggenti, su cui abbiamo tutti un’opinione personale, ma ne raschiamo solo la superficie. E così all’improvviso la superficie si è rotta e quel programma televisivo, perfidamente grottesco, mi ha interpellato, finalmente mi ha persuaso e mi ha catapultato in un testo da cui insomma tento di fuggire da almeno un anno.

Micro prospettiva

Come si entra in questa storia, con cosa e da dove cominciare? Il vero punto di accesso all’argomento è forse una delle innumerevoli situazioni apparentemente benigne, piccole e simbolicamente significative? Come quella volta in cui in uno dei vicoli della città di Bihać un uomo mi sorpassa con i suoi amici di sventura polemizzando vivacemente e ad alta voce in lingua urdu. Un attimo dopo lo vedo di spalle, sulla sua maglietta compare la scritta SREBRENICA. Può questa miniatura sociale, come un chip, comprimere una storia più ampia, quella di un incontro infelice tra un piccolo paese, profondamente traumatizzato e frustrato, ma anche disfunzionale, e un problema del XXI secolo di dimensioni globali e di difficile soluzione?

O sarebbe meglio usare una sequenza, come quella volta in cui camminavo con un amico e mia sorella accanto al fiume Una, sarà poco più di due anni fa, e lui ci avverte di fare attenzione a dove mettiamo i piedi perché stavamo giusto arrivando alla “strada di merda” – come la chiama la gente del posto – vale a dire, un sentiero stretto tra cespugli e vegetazione dove spesso i migranti defecano. E il motivo per cui lo fanno proprio lì, nei mesi più caldi dell’anno, non è difficile da capire. Il fiume è per loro il luogo in cui preservare un minimo di igiene personale, si fanno il bagno, lavano i vestiti, si siedono sulle sue sponde, al fiume si sta comodi.

Ma forse dovremmo semplicemente aggirare questo simbolismo ingenuo, le metafore e le allegorie, e affrontare la storia “più seriamente”, come si addice ai grandi fenomeni politico-economico-sociali. Solo allora noteremmo come alcune cose non cambino mai in modo significativo. Potremmo guardare, ad esempio, alle reazioni lucrative alla “crisi migratoria” di quei personaggi che anche in guerra avevano la prontezza di contrabbandare cibo e petrolio al momento giusto – e quindi accumulare ricchezza e capitale alla maniera bosniaca. In un attimo trasformano garage e scantinati umidi e friabili in “alloggi residenziali”. Gettano sul cemento nudo stuoie e coperte, vi caricano poi decine di questi sfortunati, li rinchiudono dalle nove di sera fino alle sette del mattino e prendono 15-20 euro ciascuno a notte…Un cinico direbbe, Airbnb adattato al “turismo migratorio”. 

Grandi attori e i loro interessi

Oppure ci si dovrebbe semplicemente allontanare da qualsiasi prospettiva micro, poiché presumibilmente non è in grado di offrire una visione sistemica del fenomeno, e concentrarsi invece sui “grandi attori e i grandi ruoli” in tutta questa storia. E chi incontriamo lì, in chi ci imbattiamo? L’OIM ovviamente, poco meno che la controversa organizzazione internazionale per le migrazioni che si suppone sia guidata dagli inglesi, ma vi sono coinvolti una moltitudine di colletti bianchi di dubbio profilo, formalmente nel ruolo di professionisti umanitari. Sono apparsi improvvisamente a Bihać e in BiH, da un giorno all’altro, insieme ai migranti. 

Perché, non dimentichiamoci mai che i “migranti” non sono che un sinonimo di grandi affari. Accanto al traffico di droga, al commercio di armi e alla tratta degli schiavi bianchi. Troppo denaro sporco viene riciclato attraverso tragedie di questo tipo, che hanno al centro cause economico-politiche, ma che vengono rappresentate come crisi umanitaria. Oltre all’OIM, anche altre società, per lo più private, ma con ottimi “contatti” in politica, “lavorano” sul campo e si fanno pagare generosamente. C’è una grande folla pronta ad attaccare, in una lotta incessante su chi fornirà e farà pagare i servizi di accoglienza, di alloggio, cibo, assistenza sanitaria e sicurezza nei campi dei migranti. È il paradiso della corruzione, in un paese dove la corruzione ha mangiato tutto ciò che si poteva mangiare.

Una volta consapevoli di ciò, gli incendi provocati in un campo – situato nell’abisso, lontano da tutto – che costringono i migranti a spostarsi in un luogo alla periferia della città, nella ex zona industriale, non sono che uno sfondo alla tragica commedia del teatro dell’assurdo. I gruppi politici a livello nazionale, uniti a una parte delle fazioni mafiose, si stanno attivando per soddisfare i propri interessi materiali e finanziari. Mentre i gruppi politici a livello locale e regionale – con metodi di mobilitazione della resistenza fondati sulla paura della popolazione locale – cercano di sventare i piani imprenditoriali dei primi e fare i propri calcoli perché milioni di marchi sono la posta in gioco.

Anche la montagna soffre

Bene, tutto si confonde, alzate la testa verso il cielo per poi spostare lo sguardo un po’ più in basso e concentrarvi sulla Plješevica, di un colore verde-bluastro, che domina la valle di Bihać. E lì avete qualcosa da vedere, che non vi permette di evadere dalla “questione migratoria”. La montagna è tagliata in mezzo con un’unica linea retta, larga cento metri e lunga sette o otto chilometri, ben visibile anche dalla città. È una visione terribile. Come se passaste un rasoio in mezzo alla testa di un vecchio hippie dai capelli lunghi. 

Sulla Plješevica questo è stato fatto dalla pesante motorizzazione dell’esercito croato e delle guardie forestali croate, in nome di una più facile “visibilità del confine di stato” e “miglioramento dello stato di sicurezza”, che è una diretta allusione ai movimenti migratori. Hanno abbattuto migliaia di alberi, un tempo foreste molto fitte, laddove la foresta è sempre rimasta inviolata. Attorno a questo fatto vi è anche una controversia internazionale, perché il lato bosniaco ritiene che durante l’abbattimento si sia oltrepassato il confine entrando nel territorio della BiH, cosa che la Croazia nega. Un amico, ricercatore e artista-attivista sociale che ha visitato il luogo con una squadra della forestale di Bihać, mi dice che si suppone che dei pesticidi siano stati gettati sul terreno una volta deforestato per prevenire un’ulteriore crescita della foresta in quel luogo. 

Proprio per questo motivo, sono attesi nuovi cambiamenti climatici nella valle di Bihać. Un recente uragano di breve durata, insolitamente e atipicamente forte per l’area, che ad agosto ha improvvisamente colpito la città per una quindicina di minuti – e che ha portato via alcuni tetti, distrutto infrastrutture, abbattuto alberi nei parchi, ucciso una, ma ferito diverse persone – è stato ricollegato alle attività di disboscamento sul Plješevica. Esisterà un esempio più plastico della terribile combinazione tra una crisi umanitaria e socio-economica come la “crisi migratoria”, e quindi delle politiche radicali-aggressive intraprese in nome della sicurezza, in questo caso dalla Croazia, e il classico ecocidio, che poi ritorna come un boomerang con conseguenze devastanti, uccide e distrugge?

I lati positivi della storia

C’è qualcosa di positivo in questa lunga e difficile storia sui migranti in Bosnia-Erzegovina, con un accento sull’esempio di Bihać? Sì. Le coppie sposate di migranti con figli socializzano facilmente con la realtà locale. Sono i loro figli che frequentano le scuole cittadine, imparano velocemente la lingua bosniaca e fanno amicizia con i coetanei del luogo, in modo spontaneo e sincero come solo i bambini sanno fare, ancora non contaminati dalle ideologie di noi adulti. Ricordo che recentemente la figlia di mia sorella, di sette anni, ha esclamato con tristezza che una sua cara compagna di classe, una ragazza siriana, si era “trasferita in Italia”. Le coppie di innamorati composte da migranti e ragazze locali non fanno più notizia a Bihać. Dopo lo scandalo iniziale, questo fenomeno si è lentamente dissolto e ormai non è più considerato come un eccesso. 

E poi, il cibo. Chi avrebbe mai detto qualche anno fa che a Bihać nel 2020 o nel 2021 sarebbe stato possibile mangiare qualcosa di tipico della cucina pakistana, afghana, irachena o siriana? Probabilmente nessuno. Oggi invece è possibile. Vero, questi luoghi sono frequentati principalmente dalla popolazione migrante, ma si può già intravedere qualcuno del posto qua e là, qualcuno che è riuscito ad abbattere gli stereotipi e si spinge a provare qualcosa di diverso.

Restano ancora da abbattere i pregiudizi dei ristoratori – che si lamentano di continuo della mancanza di manodopera in quanto la gente del luogo continua ad abbandonare il paese per trasferirsi in Europa occidentale, tradizionalmente destinazione di lavoratori “gastarbajter” – che potrebbero assumere qualche migrante come cameriere o cuoco, perché qualcuno desideroso di guadagnare quei modesti 700-800 marchi al mese sicuramente ci sarà. Dei passi positivi verso l’integrazione sarebbero fondamentali. Affinché questo sia possibile, serve anche un cambiamento del quadro legislativo che permetta alle persone di lavorare in modo regolare. 

Come esempio di buone prassi nei contatti con la popolazione migrante a Bihać, bisogna mettere in luce il Centro per la cultura contemporanea KRAK. Questa istituzione relativamente nuova, di cui si rimanda ad un articolo di Nihad Hasanović pubblicato di recente per Nomad, che è all’avanguardia nell’organizzazione di attività progressiste in città, e così anche in materia di gestione della “crisi migratoria”. Hanno già organizzato, insieme all’organizzazione italiana IPSIA, laboratori, feste ed eventi di cucina transnazionale. In queste attività sono state attivamente coinvolte persone in movimento, e stanno pianificando di portare avanti in modo continuativo tali pratiche che sicuramente contribuiscono alla conoscenza reciproca tra la popolazione del luogo e i migranti, e alla rottura di stereotipi e diffidenza. 

I lati negativi della storia

All’abbattimento di pregiudizi e alla condivisione di esperienze positive potrebbero contribuire anche i media, soprattutto i mass media. Sarei curioso di sapere se qualche rete televisiva bosniaca, in questi ultimi anni di presenza di migranti nel paese, abbia pensato di invitare qualcuno di loro come ospite e interlocutore nelle proprie trasmissioni. Per farci ascoltare qualcosa su quella esperienza in prima persona, direttamente. Forse qualcuno l’avrà fatto, non lo so, non che io segua intensamente la produzione mediatica in BiH, ma qualcosa mi fa dubitare…Beh, sappiamo che le storie di queste persone sono insolitamente simili le une alle altre. Del tipo, sono tutte grandi vittime: di persecuzioni belliche, distruzione, stupro, incendio doloso o odio a causa dell’identità religiosa, etnica, sessuale…

Ma potrebbe essere diverso? Davvero le confessioni di queste persone potrebbero e dovrebbero essere qualcosa di diverso? In un mondo capitalista caratterizzato da profonde ineguaglianze in cui le merci viaggiano liberamente (ma unidirezionalmente, dai centri di produzione alle periferie di consumo de-industrializzate), ma le persone no. E l’unico paradigma che il capitalismo liberale porta in primo piano come meccanismo per distogliere l’attenzione dalla reale natura delle relazioni economico-politiche di sfruttamento è proprio il paradigma identitario.

Affinché questa sciocchezza politica e globale sia completa, sappiamo tutti che i cosiddetti paesi occidentali, guidati dagli interessi economici e di profitto delle proprie corporazioni, sono responsabili dei problemi attuali di quelle parti del mondo da cui provengono i migranti. In questo contesto anche la Bosnia, con i “propri” migranti, è una vittima collaterale delle politiche neo coloniali globali a cui, in quanto stato periferico, non prende direttamente parte.

Ma bisognerebbe accettare le circostanze storiche, queste persone sono qui in Bosnia e che vi rimarranno per molto tempo. Le situazioni complesse come quella più recente in Afghanistan, o i crescenti problemi dei cosiddetti migranti ecologici provenienti dalle aree più colpite dal riscaldamento globale, come l’Africa subsahariana, non faranno altro che esacerbare le future ondate di rifugiati globali. Alcune di queste persone, tormentate da anni di torture, prenderebbero seriamente in considerazione la possibilità di sostituire il sogno dell’Europa occidentale con l’integrazione nella realtà bosniaca, anche così com’è attualmente, se solo ne avessero occasione. E questo deve essere preso in considerazione, è qualcosa su cui riflettere. 

Una sindrome su cui riflettere

Nonostante i problemi, le paure, i risentimenti, le incomprensioni occasionali e i conflitti minori, la popolazione locale di Bihać, e per quanto ne so nel resto della Bosnia-Erzegovina, in questi ultimi anni non si è mai organizzata in formazioni armate para-poliziesche o paramilitari in chiave filofascista e anti-migranti per “proteggere la popolazione e la proprietà”, come nel caso dell’Ungheria e/o della Slovenia. Ci sono stati segnali minori che qualcosa di questo genere potesse accadere, ma non è ancora successo. Ed è un bene che sia così.

In ogni caso non ci illudiamo che sia così perché i Bosniaci/Bosgnacchi sono “persone migliori” degli ungheresi e/o degli sloveni,e perciò non picchiano i migranti e non li perseguitano con le armi lungo i propri confini. Sarebbe un’affermazione ingenua e sarebbe la direzione sbagliata nella ricerca di risposte alle sfide della “crisi migratoria”. Solo la disfunzionalità dello Stato, la sua fragilità politico-economica, la debolezza istituzionale-organizzativa e legislativa, la disorganizzazione amministrativo-burocratica e l’impotenza della polizia militare, impediscono alla BiH di trattare i migranti come altri Paesi “normali”, e quindi in modo repressivo. Le circostanze attuali, per cui nessuno dei più rilevanti partiti politici o iniziative nazionali bosniache mostri aperti sentimenti fascisti, non significa in nessuno modo che non esista questa minaccia e che non possa manifestarsi in determinate condizioni. 

Dopotutto, non bisogna dimenticare che nulla ha impedito all’attuale primo ministro del Cantone Una-Sana Mustafa Ružnić (del partito A-SDA) di ricevere in tempi relativamente recenti due rappresentanti della destra radicale, del Partito pro-fascista e anti-immigrazione tedesco AfD, con cui ha amorevolmente chiacchierato di “questioni migratorie” a Bihać e nel Cantone alla presenza dei media, molti dei quali non hanno visto nulla di problematico in tutto questo. 

Le risposte del Primo Ministro alle critiche emerse successivamente suonavano più o meno così “che figura ci faremmo a non ricevere i membri dell’Assemblea della capitale tedesca”. Suona come una scusa, frutto di una sindrome autocoloniale non tanto velata e specchio di una mancanza di responsabilità rispetto ad una dichiarazione pubblica, ma pronunciata dalla figura di un primo ministro, anche ben pagato. Si dovrebbe ripetutamente ricordare a Ružnić stesso e a numerosi altri ružnić che alcune persone, tra cui molte della generazione dei nostri nonni, erano pronte a morire come partigiani nella lotta contro gli occupanti fascisti e i loro aiutanti, i traditori domestici. 

(1) Frase che fa riferimento ai villaggi di cartapesta fatti costruire dal principe russo Grigorij Aleksandrovič Potëmkin per impressionare Caterina II di Russia durante un viaggio in Crimea nel 1787 – viene utilizzata come metafora per indicare qualcosa di fittizio, un’illusione.