di Alba Mercolella 

A settembre è partito il processo per le stragi di Parigi. La notte del 13 novembre 2015 morirono 130 persone e 400 rimasero ferite. Gli imputati sono 20, ma 5 di loro sono morti quella notte.

Sei anni e due giorni. Questa è la quantità di tempo passato da quella notte. Da quel giorno, e per qualche anno, gli europei hanno avuto un po’ più paura. Infatti, solo nel 2019 gli attentati di matrice jihadistica in Europa sono diminuiti, anche grazie alla cooperazione più stretta fra i Paesi dell’Unione Europea in tema di difesa e di condivisione delle informazioni.

Quest’anno è cominciato il processo. L’8 settembre Salah Abdeslam, l’unico superstite del commando, è stato portato al Palazzo di Giustizia di Parigi sull’Ile-de-la-Citè da una maxi scorta.

Il processo è infatti blindatissimo: il rischio di attentati terroristici, in Francia, è ancora ritenuto massimo dai servizi segreti.

La tensione è alta, così tanto che anche il Covid sembra messo in secondo piano. Negli aeroporti di Parigi il tempo sembra essere tornato indietro: all’aeroporto i bagagli vengono aperti, folti gruppi di militari osservano l’andirivieni dei viaggiatori.

I simboli: il Bataclan e la civiltà occidentale

Quel giorno, nella capitale francese, si sono susseguiti tre attacchi coordinati messi in atto da dei kamikaze. Uno di loro si è fatto esplodere vicino allo Stade de France. Un altro si è fatto esplodere nell’11/o arrondissement dopo aver ucciso 39 persone in diversi bar e ristoranti. E poi, un commando di kamikaze ha provocato la morte di 90 persone al Bataclan, nota sala concerti parigina.

Il Bataclan è diventato il luogo simbolo di quegli attentati, malgrado gli attacchi si fossero verificati in altri luoghi. La ragione è semplice: la ricostruzione mediatica vede lo Stato Islamico impegnato in una crociata contro la civiltà occidentale.

I media associano fin da subito quanto accaduto a Parigi agli attentati dell’11 settembre: una serie di attentati, anche in questo caso, che devono essere ricordati nella stessa misura. E nella stessa misura la Francia deve essere pronta a difendersi. Nessun Paese “bene” deve sentirsi al sicuro (La Rocca & Torvisco, 2017).

Le stragi di Parigi e l’11 settembre: due similitudini operate dai media

C’è chi, addirittura, è sopravvissuto sia agli attentati di New York che a quelli di Parigi. Si chiama Matthew e ha descritto la sua esperienza a Parigi “mille volte peggio

La prima riguarda l’avversione e la paura verso i migranti e i rifugiati di religione musulmana.

La rivendicazione da parte di Daesh dei fatti di Parigi porta la stampa occidentale a ricollegare l’accaduto alla crisi dei rifugiati siriani: gli attentatori somigliano ai rifugiati e spesso si mescolano fra di loro in modo strategico e, se ciò è potuto accadere, è per la malagestione della crisi dei rifugiati (Draga Alexandru, 2017).

Nonostante ciò, non c’è nessuna prova che affermi l’uso sistematico, da parte dei terroristi, dei flussi di migranti per entrare in UE.

La seconda è già stata accennata: la crociata messa in atto contro la civiltà occidentale ed il diritto alla gioia e al divertimento.

Le vittime, in entrambi i casi, sarebbero morte per cause che non le coinvolgevano direttamente e in contesti ameni e di svago. La ricostruzione mediatica vede lo Stato Islamico mettere in atto una crociata contro la civiltà occidentale ed il diritto alla gioia e al divertimento (Draga Alexandru, 2017).

Come opererebbe lo Stato Islamico?

Attraverso una campagna di propaganda mediatica che mima i codici comunicativi dell’informazione globale e: Invitando combattenti da tutto il mondo a «difendere lo Stato islamico» dall’invasione di poteri apostati.”¹

Secondo gli Autori, i risultati di questa propaganda mediatica sarebbero insoddisfacenti (Calculli & Strazzari, 2016). Eppure, il Califfato ha dimostrato la sua competenza nell’uso degli strumenti mediali fin dalla sua proclamazione, avvenuta nel giugno 2014.

Il brand Daesh

Il sedicente Stato Islamico dimostra fin da subito un sapiente utilizzo dei social media, sia dal punto di vista della tecnica che della strategia.

Innanzi tutto, sa parlare di sé. Il gruppo terrorista si descrive come uno Stato che governa un territorio sottoposto a tassazione, attraverso la quale può offrire servizi e che esercita “legittimamente” l’uso della violenza. Ma la sua maggiore skill è relativa al reclutamento.

Il reclutamento attraverso i social media avviene attraverso il racconto delle testimonianze dei foreign fighters. In questo modo si contagiano molti giovani scontenti, che faticano a trovare una propria identità: elemento tipico delle seconde generazioni che vivono nei Paesi UE, come Francia e Gran Bretagna.

Lo Stato Islamico si dimostra capace di realizzare una distribuzione multipiattaforma. Vengono infatti utilizzati Twitter, Facebook e chat per lanciare i propri prodotti mediali, quali video, magazine, giochi e musica.

Da questo punto di vista, Daesh ha una marcia in più rispetto ad Al Qaeda perché è in grado di mettere al centro la comunicazione strategica, rebrandizzando il fenomeno del terrorismo.

Come nelle migliori strategie comunicative, lo Stato Islamico è capace di cogliere un bisogno: fornire contenuti materiali, narrazioni ed esperienze fruibili e apprezzati dal proprio pubblico. In questo, si dimostra una vera e propria industria mediale dei giorni nostri (Barile, 2019).

Oggi la guerra è ibrida

Cogliendo i bisogni del pubblico e come soddisfarli, attraverso la comunicazione, lo Stato Islamico dimostra di cogliere il vero punto della questione: oggi le guerre sono ibride.

Non è questa la sede per dare una definizione di guerra ibrida odierna. In breve, le guerre ibride sono caratterizzate per l’eterogeneità degli attori e dei campi di combattimento, in cui la comunicazione ha un ruolo fondamentale.

Photo credit: Nicola Franchini

Un esempio fra tanti: questo contenuto è stato postato da un sostenitore dello Stato Islamico, esaltandone l’operato.

Quali strategie sono state utilizzate in questo frangente, in questo nuovo modo di fare la guerra?

Un esempio viene fornito dalla Gran Bretagna, il cui esercito ha costituito una brigata per il combattimento in rete denominata “Twitter Troops” e la sua missione è contrastare Daesh sui social media.

Non solo la Gran Bretagna, ma anche Anonymous ha dichiarato guerra allo Stato Islamico fin dall’estate del 2014 con le operazioni opIceISIS e OpISIS, riuscendo a profilare e a chiudere migliaia di account Facebook, Twitter ed e-mail (Di Corinto, 2015).

Secondo un Rapporto dell’ISPI si tratta però di vittorie limitate, dal momento in cui Daesh ha sempre risposto agli attacchi combattendo sullo stesso terreno. A titolo di esempio, nel 2015 un virus trojan ideato da Daesh ha messo in down l’account Twitter del comando centrale militare statunitense per il Medio Oriente.

Ma torniamo ad oggi

All’epoca, il Presidente della Francia era Francois Hollande. Anche lui ha testimoniato al processo, circa al suo ruolo come capo di stato in quella terribile notte.

La sua testimonianza era fra le più attese, poiché decisiva per comprendere come mai non si riuscì né a prevenire né ad evitare gli attentati. Ecco le sue parole:

“Se avessi il minimo dubbio su quello che abbiamo fatto, preparato, impedito, ve lo direi, ve lo direi chiedendovi perdono. Ma le cose non stanno così. Mi rendo conto della sofferenza delle vittime. Ho sempre avuto tutte le informazioni sulla minaccia, sulla determinazione dei gruppi che ci facevano la guerra, sulle atrocità. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare”.

Un Hollande preoccupato parlò alla nazione durante la notte del 13 novembre 2015

Oggi non si pensa quasi più a quegli anni, durante i quali molte città europee sono state coinvolte da una catena quasi ininterrotta di crisi legate al terrorismo globale, con una copertura mediatica di prim’ordine.

Poi è arrivata la pandemia e ce ne siamo dimenticati. Tutti. Il timore dell’ondata di stranieri, e della convinzione che si mescolino tra di loro, dei terroristi (Bremmer, 2018), se non è passato è stato perlomeno accantonato.

Ciò è accaduto un po’ per la pandemia, che permea ogni sfera dell’esistenza da quasi due anni, un po’ per la progressiva chiusura delle frontiere europee all’accesso alle persone in movimento.

Quello che resta è il sentimento di insicurezza che, da ormai vent’anni, riguarda tutti (Martinelli, 2013).

¹ Calculli, M., & Strazzari, F. (2016). L’Isis, molta guerra, poco Stato. Il Mulino, (2), 222–230. https://doi.org/10.1402/82837 , p. 229

Fonti

Barile, N. (2019). Il branding del terrore. Il potere cognitivo dell’ISIS tra consumo, innovazione algoritmica e nuovi panici morali. Il Mulino, (1), 95–115. https://doi.org/10.1405/93990 

Bremmer, I. (2018). Noi contro di loro. Il fallimento del Globalismo. Milano: Egea-Università Bocconi Editore.

Calculli, M., & Strazzari, F. (2016). L’Isis, molta guerra, poco Stato. Il Mulino, (2), 222–230. https://doi.org/10.1402/82837 

Di Corinto, A. (2015, 9 Febbraio). Anonymous ora va a caccia dell’hacker n.1 dell’Is. Disponibile 27 Novembre, 2019, da https://www.repubblica.it/tecnologia/2015/02/09/news/anonymous_is_caccia_capo_hacker_jihadista-106895803/ 

Draga Alexandru, M. S. (2017). Global Rhetorics of Disaster: Media Constructions of Bataclan and the “Colectiv Revolution” in the Wake of 9/11. ESSACHESS – Journal for Communication Studies, 129–144. Disponibile da https://www.ceeol.com/search/article-detail?id=555108 

La Rocca, G., & Torvisco, J. M. (2017). Anamorfosi del terrorismo. La narrazione degli attacchi terroristici nella stampa italiana. Mediascapes journal, (9), 178–193. Disponibile da https://www.cognitivephilology.uniroma1.it/index.php/mediascapes/article/view/14144/1388

Martinelli, A. (2013). Mal di nazione. Contro la deriva populista. Milano: Egea-Università Bocconi Editore.