di Fernanda Torre
Per iniziare correttamente il nostro racconto sulla glorificazione dei personaggi ambigui di cui stiamo per raccontare, è doveroso presentare il loro paese di appartenenza.
La Bosnia ed Erzegovina è composta da due entità territoriali e un distretto che appartiene a entrambe le entità:
- Federazione di Bosnia ed Erzegovina;
- Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina;
- Distretto di Brčko, territorialmente composto da territori di entrambe le entità avendo autonomie amministrative proprie.
Gli Accordi di Dayton del 1995 sono la chiave per capire un sistema politico complesso, difficile, ma soprattutto articolato su più livelli.
A livello statale viene eletta una Presidenza, composta da 3 membri: uno bosgnacco, uno serbo e uno croato. I membri bosgnacco e croato sono eletti direttamente dal territorio della Federazione di Bosnia ed Erzegovina, mentre il membro serbo è eletto da quello della Repubblica Serba.
Ciascun membro assume a rotazione la carica di presidente della Presidenza per un periodo di otto mesi. In caso di decesso o impossibilità di uno dei membri della Presidenza, la Camera dei rappresentanti nomina il sostituto.
Analizzando più nello specifico le figure chiave di un sistema politico tortuoso e dubbioso, troviamo nomi e personaggi noti per il loro vissuto e il trascorso.
Venticinque anni dopo la fine di un conflitto sanguinario, ci sono forti testimonianze di come ex leader politici nonché ex criminali di guerra siano ancora oggi glorificati e osannati per le loro azioni.
Gli stessi rappresentanti delle associazioni dei familiari delle vittime della guerra, i sopravvissuti e i rappresentanti della comunità internazionale considerano la tendenza a esaltare i criminali di guerra come un vero e proprio ostacolo al processo di riconciliazione.
Preoccupa inesorabilmente la testimonianza degli ex prigionieri detenuti nei campi di concentramento controllati dall’HVO (Consiglio di difesa croato), quegli stessi prigionieri che affermano come l’idea di uno spazio etnicamente pulito, destinato a un solo popolo, sia ancora viva.
Venticinque anni dopo la fine di un massacro devastante, abbiamo la testimonianza che, i principali criminali di guerra, condannati per le loro azioni, siano ancora sostenuti per i loro ideali.
Una prima testimonianza è l’Unione democratica croata della Bosnia Erzegovina (HDZ BiH), principale partito dei croato-bosniaci, che non ha mai apertamente preso le distanze dagli ex leader dell’Herceg Bosnia condannati in appello per crimini di guerra.
Lo stesso presidente della Presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina, Milorad Dodik, continua a glorificare i criminali di guerra, come quando qualche anno fa decise di intitolare una residenza universitaria a Radovan Karadžić, condannato in appello all’ergastolo per diversi crimini di guerra, tra cui il genocidio di Srebrenica.
Lo stesso Valentin Inzko, alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina ha imposto come ultimatum la data di maggio 2021, per la rimozione di tale targa. In caso negativo, sarà impedito a Dodik l’ingresso nei paesi dell’Unione Europea.
Da un’analisi recentemente pubblicata dal Balkan Investigative Reporting Network (BIRN) è emerso che oggi in Bosnia Erzegovina ci siano più di dieci istituzioni, strade e spazi pubblici intitolati a persone condannate o accusate di crimini di guerra.
Dopo Dodik abbiamo la figura emblematica di Slobodan Praljak, ex capo di Stato maggiore del Consiglio di difesa croato condannato nel 2017 a vent’anni di carcere per aver preso parte all’impresa criminale congiunta con l’obiettivo di rimuovere forzatamente la popolazione bosgnacca dal territorio dei comuni di Stolac, Mostar, Čapljina, Ljubuški, Prozor, Vareš, Gornji Vakuf e Jablanica.
Alcuni minuti dopo la lettura della sentenza Praljak ha ingerito una fiala di veleno, ponendo fine alla sua vita.
Oggi la figura di Praljak ha ricevuto un vero e proprio tributo, attraverso un graffito disegnato sulla facciata di un edificio residenziale a Čapljina, sua città natale. Allo stesso tempo a tre anni dal suo suicidio alcuni cittadini di Mostar e Kiseljak hanno acceso candele per ricordare la sua figura e le sue gesta.
Infine abbiamo Fikret Abdić, sindaco di Velika Kladuša, cittadina di confine con la Croazia, simbolo della rotta balcanica odierna.
Insieme a Bihac rappresenta il luogo di passaggio e al tempo stesso di prigionia per le migliaia di persone migranti.
Abdić, denominato ancora oggi “Babo” per i suoi grandi successi imprenditoriali degli anni ’80, ha diretto la Agrokomerc, una delle più grandi ditte statali bosniache che si occupava di distribuzione alimentare; portandola successivamente ad un clamoroso crac economico.
Abdić oltre alla sua figura di imprenditore, era a capo della cosiddetta Zapadna Bosna (Bosnia occidentale), enclave che, durante la guerra, pur essendo popolata in maggioranza da musulmani, si era autonomamente dichiarata indipendente ed osteggiava la politica di Izetbegovic, arrivando sino a schierarsi in più occasioni al fianco di serbi e croati. Secondo l’atto di accusa, Abdić, ”in qualità di comandante della cosiddetta difesa popolare, ha ordinato e organizzato l’apertura di lager e campi di detenzione a Velika Kladuša, dove sono stati rinchiusi e trattati in modo disumano, cittadini e loro familiari, contrari all’istituzione della repubblica costringendoli anche a combattere nelle file dei paramilitari”.
Tutte queste figure testimoniano come il processo di riconciliazione sia lungo e tortuoso, osteggiato da più fronti con l’obiettivo troppo spesso di lasciare inerme e solo il cittadino stesso.
La Bosnia ed Erzegovina è oggi attraversata da una profonda ferita che fatica a guarire. A più di venticinque dalla fine del conflitto, le questioni più delicate riguardanti la guerra, il genocidio e in generale gli accadimenti degli anni novanta rimangono non solo irrisolte, ma spesso manipolate.
Manipolate da quegli stessi politici presentati finora.