di Adna Čamdžić 

“se guardi dritto davanti a te la Bosnia è vicina, è a due passi. Se invece decidi di voltarle le spalle, allora è dall’altra parte del mondo” (anonimo)

All’inizio degli anni ’90 l’Italia si ritrovò nella posizione di dover accogliere un numero consistente di profughi provenienti dalla ex Jugoslavia. I primi profughi giunsero in Italia dalla fine del 1991. Erano croati che fuggivano dalla costa dalmata e dai territori della Slavonia, sotto attacco dall’esercito jugoslavo guidato dalla Serbia. In seguito ai primi arrivi il numero di persone che raggiungevano il territorio della penisola crebbe sempre di più, specialmente con lo scoppio della guerra in Bosnia, che produsse un numero significativo di sfollati sia interni sia diretti verso i paesi confinanti. La maggior parte di questi raggiunse la Croazia, dove furono allestiti campi profughi gestiti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Altri si spostarono in Germania, Austria, Svezia, Svizzera e Italia. Dopo la Germania, l’Italia divenne il secondo paese europeo per numero di persone accolte

Trovandosi di fronte a un tale afflusso di immigrati, i governi europei si mobilitarono nel tentativo di delineare una politica europea comune in materia di gestione dei rifugiati: era necessario tenere sotto controllo le sempre maggiori pressioni ai confini. Ciò nonostante, le azioni concrete adottate dalle istituzioni europee presentavano numerose lacune e i governi, tra cui anche le autorità italiane, sembravano più orientati a garantire il proprio supporto, tramite lo stanziamento di fondi, a Croazia e Slovenia, affinché l’esodo rimanesse circoscritto in quelle zone. 

Ad ogni modo, per quanto si cercasse di contenere il fenomeno migratorio, non era possibile fermare il flusso di persone che giungevano costantemente all’interno dei confini europei. Per fare fronte alle mancanze delle istituzioni, furono organizzati in parallelo interventi spontanei di assistenza dal basso sia nei luoghi di guerra sia nei territori di arrivo. Le azioni di solidarietà interessarono vaste fette di popolazione e videro distinguersi il movimento pacifista italiano, protagonista sulla scena internazionale. Inizialmente gli interventi da parte della società civile erano rivolti verso i campi profughi situati in Slovenia e in Croazia. Si trattava, più che altro, di organizzare il trasporto e la distribuzione di beni di prima necessità verso tali luoghi. Successivamente, tra il 1992 e il 1995, si venne a creare sul territorio italiano una rete di accoglienza diffusa che riuniva associazioni, comitati, enti locali e privati cittadini. Tale rete cominciò presto a formalizzarsi e costituirsi in Comitati locali che lavoravano per far incontrare la domanda di ospitalità con l’offerta di accoglienza, cercando una sistemazione per gli sfollati in arrivo. Le numerose esperienze di quegli anni sono state accuratamente raccolte, a vent’anni dall’avvio della mobilitazione, grazie al progetto “Cercavamo la Pace”.

Le iniziative della societá civile italiana furono stimolate principalmente dalla vicinanza ai luoghi di guerra: quello che accadeva nei Balcani veniva percepito come una “guerra in casa”. Anche i campi profughi, dislocati soprattutto in Croazia, erano raggiungibili in poche ore con le automobili. Fu inoltre di fondamentale importanza la copertura mediatica del conflitto. Giocò, infine, un ruolo importante, la percezione dell’immobilità delle istituzioni pubbliche, dei governi europei e della comunità internazionale nel trovare soluzioni adeguate all’accoglienza dei civili in fuga dalle persecuzioni. Si rafforzava così la fiducia in una diplomazia internazionale promossa dal basso

La forza del terzo settore di mobilitarsi e dare vita ad azioni di solidarietà dal basso ha portato a risultati spesso positivi. Oltre a ricevere una sistemazione in abitazioni offerte da privati cittadini, i profughi venivano accompagnati dal momento della partenza dai luoghi di provenienza e per tutto il percorso di integrazione nella società di permanenza. Per di più, ci si focalizzava su numeri ridotti: venivano ospitati principalmente piccoli nuclei familiari o singoli individui, distribuiti in base alle possibilità di accoglienza dei volontari italiani. Si evitava così di creare situazioni simili ai centri collettivi di gestione pubblica, che portavano a grandi concentrazioni di persone in un unico ambiente creando un rapporto insostenibile con il territorio”.

La decisione di avviare l’accoglienza dei profughi non fu qualcosa di studiato a tavolino e ben pensato, pertanto una volta che cominciarono ad arrivare i primi profughi divennero visibili anche tutti i problemi che ne conseguivano, a partire dalla difficoltà di comunicazione. La poca conoscenza del contesto di provenienza di coloro che arrivavano contribuì, inoltre, ad alimentare i numerosi pregiudizi sui profughi e ad accentuare la percezione della distanza tra il “qui” e il “lì”, rendendo in un primo momento la convivenza complicata, come osservava Luca Rastello. Infine, si sottolinea la valutazione negativa della durata e del modo in cui ha avuto termine il progetto di accoglienza. Una volta che si concluse l’emergenza umanitaria cessò anche, nella maggior parte dei casi, l’impegno dei gruppi di volontari, che non si rilevarono intenzionati ad elaborare una riflessione più completa sull’esperienza e più in generale sulla potenzialità della società civile nell’accoglienza dei migranti. Pareva si fosse trattato di azioni fini a sé stesse, che si esaurirono “con l’esaurirsi dell’emergenza”.

Sebbene la cooperazione con quei territori si sia ridotta con il tempo, quelle esperienze hanno dato vita ad una memoria collettiva che continua ad ispirare gli interventi degli attori sociali ancora oggi.  Basti pensare che nel mese di settembre del 2020 è uscita nelle librerie italiane una nuova edizione Einaudi di “La guerra in casa”, il libro sulla guerra degli anni ’90 redatto da Luca Rastello, descritto da Veronica Tosetti per il sito www.balcanicaucaso.org come pietra angolare della non-fiction italiana e della narrazione dei conflitti dei Balcani”. Libro di estrema attualità per l’approccio che propone all’analisi delle vicende che hanno coinvolto i territori dell’ex Jugoslavia, comprese le diverse sfaccettature e difficoltà delle azioni di accoglienza e che offre numerosi spunti di riflessione per affrontare il presente

Come racconta il curatore dell’edizione Mauro Ravarino, molti degli attivisti di allora continuano a lavorare su temi che riguardano le migrazioni e la cooperazione. Alcuni sono ritornati nuovamente nei Balcani, o meglio su quella che oggi viene definita “la rotta balcanica”. Vengono menzionati il cooperante Agostino Zanotti, la dottoressa Luisa Mondo, l’avvocato Lorenzo Trucco. Si ricordano inoltre le attività del Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS), dell’Associazione per l’Ambasciata della Democrazia Locale (ADL) a Zavidovici, ASGI, Associazione Almaterra e molte altre realtà che, in seguito ad un comune sforzo, hanno dato recentemente vita alla rete informaleRiVolti ai Balcani, nata con l’obiettivo di dare una risposta alla violenza, illuminare quei corpi che sono gli oggetti della brutalità della rotta. La Bosnia è diventata infatti oggi una delle tappe della “via della vergogna”: Il Cantone Una-Sana, Velika Kladusa, Bihac, Bira, Lipa, sono nomi che sentiamo pronunciare e che ci riportano alla mente le immagini degli orrori che avvengono nel cuore dell’Europa, nuovamente a due passi da casa. E quello che preoccupa, di nuovo, è la risposta data dalle istituzioni: comunità internazionale, Unione Europea, perfino l’Italia sono tutte egualmente responsabili di quanto sta accadendo. 

L’attivismo degli anni ’90 ci riporta alla mente che l’Europa non è solo istituzioni, non è solo governi e politiche di respingimento. La memoria degli anni ‘90 ci permette di costruire una narrazione differente, di mobilitare l’immaginario dei “fiori nei cannoni”, al fine di motivare la costruzione di reti di solidarietà che hanno la fortuna di appoggiarsi su fondamenta storiche solide. 

Cionondimeno, è bene ricordare che le azioni di solidarietà non sempre sono sufficienti, così come i camion di aiuti umanitari: non risolvono il problema alla radice, tappano i buchi. Ancora più importante, le esperienze dal basso non sempre funzionano senza il sostegno delle istituzioni governative: difficilmente l’accoglienza degli anni ’90 avrebbe dato i suoi frutti se non si fossero cercati modi di intervenire all’interno dei dispositivi esistenti, tramite l’aiuto di reti di avvocati e medici. E per ultimo, le esperienze di assistenza rischiano sempre di lasciare un vuoto una volta esaurita la crisi se non accompagnate da un’adeguata riflessione a riguardo. Guardare alle dinamiche di attivismo del passato potrebbe aiutarci a riflettere sui nostri gesti quotidiani di volontariato e di assistenza nel presente. Non possiamo rischiare che le nostre azioni diventino fini a sé stesse, utili al fine di lavarci le coscienze, dobbiamo quotidianamente impegnarci ad avviare una riflessione più completa sulle nostre esperienze, la potenzialità e le conseguenze dei nostri interventi. Riflettere costantemente sulla propria posizionalità è di certo un’operazione metodologica che poco ha a che fare con l’azione pura e cruda sul terreno, ma non per questo meno importante. 

È fondamentale saper sfruttare anche i tempi di crisi per avviare un’auto-riflessione, per valutare gli errori e le possibilità, per fare rete e stringere contatti: “metterci assieme ognuno con la propria responsabilità è molto importante, cercando di creare una sinergia che porti ad effetti concreti” (per usare le parole di Corrado Conti in un recente intervento), cercando un punto di incontro tra le diverse realtà che operano sia a livello locale e globale, tessendo insieme nuove narrazioni collettive

Fonti 

Immagine in evidenza: Comitato accoglienza profughi ex Jugoslavia di Torino

Gli anni novanta: una rete di accoglienza diffusa per i profughi dell’ex Jugoslavia – M. Bona, Meridiana, 2016, 97-119

L’Italia manda gli aiuti ma respinge i profughi – L. Fabiani per la Repubblica, 27/05/1992

Rifugiati, profughi, sfollati. Breve storia del diritto d’asilo in Italia – N. Petrovic, FrancoAngeli, 2016

Cercavano la pace (I) – M. Abram e M. Bona per OBCT, 22/05/2014

Cercavano la pace (II) – M- Abram e M. Bona per OBCT, 23/05/2014

Cercavamo la pace. La solidarietá della societá civile italiana con i Balcani dagli anni ‘90 alle sfide del presente – Osservatorio balcani e caucaso transeuropa

La guerra in casa – L. Rastello, Einaudi, 1998 

La guerra in casa – L. Rastello, Einaudi, 2020 (con la prefazione di M. Ravarino)

Le voci della solidarietá internazionale in ex Jugoslavia – M. Abram per OBCT, 15/05/2017

La guerra in casa ci riguarda ancora – V. Tosetti per OBCT, 26/10/2020

Rivolti ai Balcani – C. Elia per OBCT, 29/06/2020

La via della vergogna. Sulla rotta balcanica delle migrazioni – N. Scavo per Avvenire, 05/12/2020

Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento – A. Martellini, Donzelli Editore, 2006

Rotta balcanica: testimonianze sulla crisi umanitaria in Bosnia – S. Maraone, G. Schiavone e C. Conti per Altreconomia e Rivolti ai Balcani, 15/12/2020

RiVolti ai Balcani

Osservatorio balcani e caucaso transeuropa