di Federica Zanantonio Martin  

Parte seconda 

Svariate volte mi ero ripromessa che non mi sarei più fatta coinvolgere emotivamente e personalmente dalle storie dei singoli. Anche se invano. 

Il principio del distacco emotivo l’avevo elaborato a tavolino dopo l’autunno 2016 quando attendevo notizie da R., 26 anni, di Aleppo. 

La prima volta che l’avevo vista, era seduta ad un tavolo da pic-nic alla stazione di servizio dell’Eko Refugee Camp

C’erano tante donne, parlavano tra di loro e guardavano i loro figli giocare. 

Lì avevo incontrato lei, una ragazza giovane, poco più grande di me. 

Parlammo tanto quel giorno. E lo stesso accadde nei giorni seguenti. 

Di ritorno a Torino, continuammo la nostra corrispondenza virtuale. 

Mi raccontava la sua vita: era stata trasferita ad Atene, in un altro campo. Poi era passata per Exarcheia. Mi chiedeva dei miei viaggi, delle mie avventure. Ci scambiavamo foto e confidenze. 

Provava a nascondere la tristezza ma l’avvertivo ugualmente. 

Poi all’improvviso più nulla. L’ultimo messaggio, il mio, era del 16 ottobre. 

Hi sweety! How are you? Right now, I’m in Paris. I’ve started the university here. Are you still in Athens? M., is he okey? Miss u so much 

Non ricevetti mai risposta. 

Ho atteso sue notizie per diversi mesi, invano. Ho continuato a scriverle. Poi sono passata alle chiamate. 

Ma il telefono era sempre spento. Una fastidiosa voce greca mi annunciava probabilmente che il numero da me chiamato non era più attivo. 

Chi lo sa.

In seguito, ho prima cercato tra i suoi contatti Facebook dei parenti che avessero lo stesso cognome. Ho scritto a diversi di loro ma non ho ricevuto alcuna risposta. 

Ho poi trovato una sua omonima sempre su Facebook.

Hi! I’m Federica! I’m searching for R., we’ve met in Greece last year! Are you that R.? 

Fu invano.

Ho temuto il peggio. Ancora oggi, temo il peggio. 

Sono passati quasi cinque anni e di R. non ho più notizie. 

Questa storia incompleta è una ferita aperta che so impossibile da rimarginare. Una storia rimasta senza un lieto fine conosciuto. 

Fu a partire da quel momento che elaborai il principio del distacco emotivo. Inutilmente, certo, ma ogni tanto ci fantasticavo su. 

Devo averci ripensato anche quella sera di dicembre a Saint-Ouen. Ne sono quasi certa. 

Police, police

A quell’avvertimento avevo reagito con freddezza. Non mi feci troppo scomporre. E lo stesso fece lui. 

Senza guardarci negli occhi ci incamminammo verso la porta d’ingresso del palazzo. Io davanti e lui sempre dietro. 

Ricordo di aver detto un banale Bonjour salutando una decina di poliziotti, o forse meno, che occupavano quasi per intero la hall del palazzo. 

Lì, c’era un ragazzo che conoscevo bene di vista. Era seduto sulla solita sedia che occupava quotidianamente, solo che questa volta aveva la testa china. 

L’avevano beccato. Il controsoffitto era tutto fracassato. Stavano cercando droga e con molta probabilità l’avevano anche trovata. 

Ci fermammo davanti al primo ascensore senza proferire parola. Aspettammo il suo arrivo. 

Non so se la polizia fece davvero attenzione a lui, a me, al nostro silenzio. 

La porta dell’ascensore si aprì e entrammo dentro velocemente. 

Ricordo di aver premuto il tasto 8 e di aver solo sentito poi un Tu sais … je n’ai pas de papiers.  

Quella confessione, che sapevo già, me la fece a bassa voce. Forse era più per ricordarlo a se stesso che a me. 

È vero, non aveva né passaporto né una carta d’identità ma solo un certificato di nascita comprato in Italia che riportava come data di nascita un fittizio 1° gennaio 2000.  

Tuttavia, un papier intestato a lui lo aveva: l’OQTF, l’obligation de quitter la France

Si trattava di un documento amministrativo che lo obbligava a lasciare il territorio francese entro un mese dalla sua emissione. Il termine ultimo riportato su quel foglio era ormai passato da molto. 

Era ufficialmente un clandestino. 

Al primo controllo di polizia, cosa sarebbe successo? Era una domanda che ci ponevamo spesso. 

Entrammo in casa e chiusi la porta alle mie spalle. 

Zut, c’est bien passé, mi disse sorridendomi. 

Oui, mais bon, non aggiunsi altro. 

Pensavo a come fosse così facile essere fermati dalla polizia. 

Tu sais … Je suis noir, ça peut arriver que je sois arrêté par la police, me lo disse per constatare un’ovvietà. 

Aveva ragione. Non era così improbabile essere fermati dalla polizia se si era neri. 

Ne era cosciente e io come lui. 

Era, è una vita spezzata, la sua. Vissuta a singhiozzo in continuazione. 

Era, è una vita segnata dalla ricerca costante all’invisibilità quotidiana. 

Lavori in nero che cambiano ogni settimana, camere in subaffitto condivise con tante persone. Prima a Pierrefitte, poi a Melun e infine a Saint-Denis. Sono solo quelle di cui riesco a tener conto.  

Niente metro negli snodi più grandi, quelli che hanno più controlli di polizia e di sicurezza. Meglio gli autobus, quando possibile.

E in effetti, noi ci incontravamo sempre ai margini della città, alle porte, nella speranza di mimetizzarsi con le persone che ci circondavano. 

Ricordo di quella volta in cui volevo portarlo al Louvre durante una apertura settimanale gratuita. Era contento all’idea ma poi mi disse di no. 

Temeva i controlli. 

Di rado si recava verso il cuore della città e quando lo faceva, era solo perché di passaggio. 

Era, è una vita in sordina quella di lui, il clandestino. 

Affetti, sentimenti, emozioni, vissuto e quello che ci sarà da vivere sembrano pronti ad essere messi da parte non appena la situazione lo impone. 

Non esiste programmazione, pianificazione. 

Non ci sono viaggi. 

Più volte mi ha ripetuto di voler venire in Italia in vacanza. Di passare del tempo a Torino e andare poi in montagna. Vorrebbe conoscere la mia maman, di cui chiede sempre notizie. Rivedere N., e A.

Nulla di questo è possibile. E non è una condizione temporanea, è permanente. 

Mi diressi verso la cucina per mettere su l’acqua della pasta.

C’mon, on mange ! Ça te va de la pâte avec le pesto, gli chiesi per alleggerire l’atmosfera. 

Et tu me le demande ? Une vraie pâte cuite par une vraie italienne ! Bah oui, aggiunse entusiasta all’idea di poter gustare della pasta cucinata da un’italiana. 

Avrei voluto dirgli che la pasta sarebbe stata mediocre, che non ero una grande cuoca, che cucinavo per sopravvivere.  

Mi limitai a ridere alla sua battuta. 

Fine seconda parte