di Federica Zanantonio Martin 

Stando ai dati riportati da Unhcr nel suo ultimo report di febbraio, dall’inizio dell’anno a oggi sono già 329 le persone dichiarate morte in mare. Il Mediterraneo, come l’Oceano Atlantico, si confermano così testimoni silenziosi di una vera e propria ecatombe giornaliera che negli ultimi sei anni ha fatto registrare – solo in territorio europeo – ufficialmente 20.550 morti e dispersi. Una strage strutturata e sistematica.

Tuttavia, quello che le statistiche ufficiali non raccontano sono le storie sconosciute di tutti coloro che sono stati dichiarati dispersi o morti in quel bollettino, dei veri e propri desaparecidos di cui molto spesso neanche i propri familiari conoscono il destino. Tra di loro: uomini e donne, anziani e giovani, madri e padri, fratelli, figli, nipoti ma anche cugini. Ci sono volti, storie di cui non si conosce il finale e i primi a soffrire della mancanza di notizie sono quei familiari e amici che tentano ogni giorno di saperne di più, di avere qualche notizia a riguardo.

Molti di loro si trovano dinanzi a una elaborazione di un lutto impossibile e vivono nella speranza che il proprio familiare o amico in realtà sia salvo e solo impossibilitato a comunicare con loro. 

La solitudine di queste famiglie in seguito alla scomparsa, all’ignoto destino dei propri cari, è una di quelle storie che molto spesso non vengono raccontate. Si tratta di morti migranti, morti di passaggio, morti destinate a rimanere silenziose. 

Eppure, queste famiglie meritano una risposta.

Tra il 2013 e il 2017, Italia apripista per le ricerche dei naufraghi senza volto 

In Italia, a restituire un nome, una storia a tutti quei morti che il mare ci riconsegna è Cristina Cattaneo, docente di medicina legale all’Università di Milano e direttrice del laboratorio di antropologia e odontologia forense Labanof. 

Nel suo libro Naufraghi senza volto, uscito nel 2018 ed edito Raffaello Cortina Editore, racconta proprio il difficile lavoro dell’identificazione. Nel tentativo di dare un nome a questi morti e poterli restituire ai propri familiari, la dottoressa Cattaneo e la sua squadra hanno passato in rassegna centinaia di foto, documenti, analizzato cicatrici, tatuaggi e preso in esame abiti e oggetti personali. 

Inoltre, fondamentali sono state le testimonianze di parenti, amici, conoscenti giunti da tutta Europa alla ricerca di risposte. Grazie alla combinazione di diverse tecniche di antropologia, odontologia, analisi del DNA e autopsie, sono state effettuate diverse identificazioni. 

Il lavoro della dottoressa Cattaneo è cominciato proprio nei giorni successivi alla terribile strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, anche se la svolta è avvenuta in seguito a un altro naufragio, quello del 18 aprile 2015 in cui persero la vita più di mille persone.

Nel suo libro, Cattaneo racconta come quella strage seppe smuovere le coscienze italiane, aprendo uno squarcio di umanità in un Paese che già era impegnato nella difficile gestione di migliaia di migranti vivi. L’Italia fu l’unico stato “a trattare quei mille morti come verrebbero trattati mille morti europei”, scrive Cattaneo. Per la prima volta si creò un lavoro sinergico tra istituzioni diverse, tutte unite per una causa pressoché ignota e per certi versi impopolare: recuperare i corpi, analizzarli, seppellirli e trovarne i parenti. Una cosa mai accaduta prima in nessun altro paese europeo.

Nel caso dei naufragi di Lampedusa del 2013, il 50 per cento delle vittime è stato identificato. Le famiglie di 66 scomparsi si sono presentate a Roma e Milano per la raccolta dei dati ante mortem; una dozzina ha scoperto che i propri parenti non erano tra le persone decedute.

Alla fine dell’operazione, nel 2017, furono 528 le vittime sottoposte ad autopsia. Tra di loro, tante storie che meritavano di essere raccontate e restituite ai propri cari perché identificare i morti significa pensare ai vivi che stanno dietro ai morti.

L’esperimento italiano si è concluso nel 2018 quando con il cambio di governo, non sono stati più stanziati fondi per proseguire le operazioni.

Se l’Italia ha fatto scuola nel lavoro di identificazione dei corpi migranti, la pratica del riconoscimento inizia a essere esercitata anche in altri paesi dell’Unione Europea, non senza estreme difficoltà. A oggi, non esiste un protocollo europeo né tanto meno nazionale che normalizzi le operazioni di ricerca e identificazione.

Il caso spagnolo 

Un recente reportage pubblicato su Le Monde e realizzato in Spagna da Sandrine Morel, porta alla luce il tentativo di riconoscimento dei morti da parte di alcune associazioni e organizzazioni spagnole che si sono fatte carico – negli ultimi anni – di accogliere la richiesta di denuncia di scomparsa da parte dei familiari di migranti dispersi

Tra questi organismi vi è il CIPIMD, il centro internazionale per l’identificazione dei migranti dispersi. Nata a Malaga nel 2017, questa ONG si incarica di compilare l’elenco delle imbarcazioni che arrivano sul territorio spagnolo con il numero di passeggeri a bordo e d’incrociarlo con le imbarcazioni che sono state dichiarate disperse. Il centro ha inoltre avviato un lavoro di cooperazione e in sinergia con l’istituto forense di Las Palmas che si è incaricato, per la prima volta, nel settembre 2020, di prelevare un campione di DNA dai corpi recuperati da un naufragio verificatosi a 160 km dalle coste delle isole Canarie. All’inizio di marzo, per la prima volta, uno di questi campioni è stato confrontato a quello di un possibile genitore, che vive a Madrid. 

“Dall’inizio del 2020, abbiamo registrato le informazioni di una cinquantina di migranti morti in mare – il loro DNA, una scheda dentale e fotografie identificative -, e abbiamo firmato un protocollo con la Croce Rossa per facilitare la ricerca delle famiglie, che continuano ad aumentare. Preferiremmo che fossero recuperati più corpi, perché sappiamo che i dispersi in mare sono ancora più numerosi…”, così racconta la direttrice dell’istituto di medicina legale di Gran Canaria, Maria José Meilan alla giornalista Morel. 

Tuttavia, la loro attività non è così semplice. Come riportato all’interno del rapporto dell’OIM del dicembre 2020, esistono infatti pochissimi dati sul numero reale di partenze e tentativi dalle coste dell’Africa occidentale, mentre i relitti non sono spesso segnalati.

Incrociando le informazioni provenienti sia dalle comunità di migranti, che dai servizi di soccorso e dalle famiglie, il collettivo Caminando Fronteras, che dispone di un numero di emergenza affinché i migranti lo utilizzino quando si trovano in una situazione di pericolo in mare o si avvicinano alle coste, ha registrato, da parte sua, 2.172 scomparse in mare nel 2020. Il numero fa riferimento soltanto alle persone che hanno cercato di raggiungere la Spagna.

Nel 2020, solo un centinaio di corpi sono stati ripescati. La maggior parte non sono stati trovati – una situazione insostenibile per le loro famiglie. “Quando un’imbarcazione arriva con dei sopravvissuti, i genitori possono ricostruire i fatti e iniziare il loro lutto, ma quando non c’è nemmeno un relitto, il dolore è senza fine”, riassume Ernesto Garcia, portavoce di Caminando Fronteras, a Le Monde

In Africa, ma anche in Spagna e in Francia, centinaia, forse migliaia di persone cercano così invano il proprio figlio, il proprio marito, il proprio padre. Sanno solo una cosa: il giorno e il luogo in cui sono saliti a bordo di una barca di fortuna per attraversare il Mediterraneo o l’Atlantico. Giorni, settimane, mesi, a volte anche anni sono passati, senza che ricevessero notizie. Eppure, nonostante il tempo, continuano a sperare che siano vivi da qualche parte. Questa perenne e ineluttabile incertezza è vissuta come una tortura. 

Alle Canarie, la Croce Rossa ha creato un indirizzo e-mail per canalizzare le decine di richieste d’informazioni che le pervengono ogni giorno, ma sottolinea anche i limiti che deve affrontare. 

La difficoltà principale per le persone che chiedono notizie è quella di dimostrare il loro rapporto di parentela, il che è indispensabile, perché molti migranti sono vittime della tratta di esseri umani. 

Tuttavia, il compito si complica in quanto molti di loro, nel timore di essere espulsi, forniscono nomi falsi in fase di registrazione. 

Altre ONG raccomandano a coloro che possono recarsi in Spagna di sporgere denuncia. Ma, ancora una volta, la procedura è precaria e soggetta alla volontà dei funzionari.

Come racconta a Le Monde l’avvocato Daniel Arencibia, “Ho accompagnato cinque volte al commissariato il fratello di un migrante marocchino scomparso. Ogni volta, gli agenti hanno rifiutato di prendere la sua denuncia, dicendogli che suo fratello non era spagnolo, non viveva in Spagna e che non sapevano nemmeno se fosse arrivato”. Al sesto tentativo, il giovane è stato finalmente ricevuto da un’unità di polizia incaricata delle indagini sulle mafie dell’immigrazione. “Lo hanno sottoposto a un interrogatorio su come suo fratello era partito, il costo del viaggio, le persone che aveva contattato, come se fossero alla ricerca di un reato, non di una persona scomparsa. Il giovane era in lacrime”. Prima di partire, la polizia gli ha infine detto che né suo fratello né le altre tre persone di cui aveva il nome e che viaggiavano con lui figuravano sulle sue liste.

La speranza rimane quella che il fratello possa essere vivo ma l’incertezza si tramuta in una tortura continua.