di Mathieu Porcellana 

Uno schizzo d’acqua gli colpisce il volto. M. apre gli occhi. Si asciuga l’acqua dal volto. Una goccia gli finisce in bocca e inumidisce ciò che la salsedine ha seccato. M. si passa la mano sugli occhi. Si chiede per un istante se non siano le ennesime lacrime che ha versato. Impossibile. Non avrebbe nemmeno più la forza di piangere. Quella sul suo viso è salata come una lacrima, ma sono solo gli ennesimi schizzi di Mediterraneo sul suo volto. Apre gli occhi, di fronte a lui solo il mare. Come ieri, come domani. Si chiede se ci sarà mai una fine. “Inchallah”, sussurra.

Vicino a lui delle persone si passano una bottiglia d’acqua, acqua di mare ovviamente, non ne hanno più di potabile. Ma ormai sembra non accorgersene. Accetta la bottiglia d’acqua e si bagna le labbra. Da giorni sono su un gommone stretti in quaranta. Il più delle volte guarda il mare o il cielo, perché guardare il volto delle altre persone con lui equivarrebbe a guardarsi allo specchio. Volti stanchi, consumati, ma che ancora si ostinano a sorridere a tenere alto il morale. Un uomo intona una preghiera. Chissà con che forza riesce a farlo, lui non riuscirebbe neanche a sorridere, figurarsi cantare. Per cui si accascia sul bordo del gommone e ripete senza emettere suoni i versi di quella preghiera.

Quando lo scafista gli ha obbligati a salire sui gommoni si era spaventato. Ai lati dello scafista erano comparsi due uomini armati. Un vecchio aveva provato a protestare, del resto lui aveva pagato per sé sua moglie e suo figlio e voleva arrivare sano e salvo in Europa, mica affrontare il Mediterraneo a bordo di un colabrodo. Lo scafista gli aveva sparato, il corpo diventato un manichino sgraziato era caduto in mare. Dopodiché erano tutti saliti sul gommone e lasciati alla deriva. Aveva guardato il volto del bambino diventato orfano di padre all’istante e una volta seduto sul gommone si era preso il volto tra le mani e aveva pianto le ultime lacrime rimaste. Pregando che tutto finisse in fretta.

***

Il viaggio era cominciato l’anno prima. Si era preparato psicologicamente per un mese, peccato che lui sognasse di andare nella capitale e non in Libia. Era salito su un bus insieme a suo zio e a un suo amico coetaneo. Arrivati a Dakhar tutti erano scesi, tranne loro tre. Lo zio aveva parlato con l’autista del bus che aveva richiuso le porte ed era ripartito.

-Dove si va? Aveva chiesto.

-Non ti preoccupare, aveva detto, domani lo scoprirai.

Avevano viaggiato tutta la notte, al mattino erano scesi dall’autobus per trovarsi in un piazzale con altre persone. L’autista del bus aveva salutato lo zio ed era ripartito. M. aveva fame ma soprattutto era curioso di sapere dove fosse, così come il suo amico. Lo zio si era acceso una sigaretta e gli aveva tranquillizzati. Aveva detto a tutti e due di tenersi pronti, presto sarebbero stati portati da un’altra parte, perché il loro viaggio non era ancora finito. Anzi. Il primo pezzo è stato il più facile.

M. ha sempre voluto pensare che lo zio non sapesse nulla dell’inferno in cui lo aveva mandato.

Nel piazzale era arrivato un altro autobus, più scassato del precedente. Erano scesi tre uomini. Uno di questi sfoggiava dei vestiti costosi e una catena d’oro al collo. Aveva detto a tutti di mettersi in fila e di salire sul mezzo. Quando era arrivato il turno di M. e del suo amico lo zio li aveva spinti verso il bus, poi si era fermato a parlare con l’uomo con la catena d’oro e gli aveva allungato qualcosa. A M. aveva detto che una volta scesi avrebbero dovuto cercare un suo amico e ci avrebbe pensato lui.

-Non vieni con noi zio?

-No, io resto qua.

Li aveva abbracciati tutti e due e si era dileguato. Sull’autobus M. aveva guardato l’incessante coda che stava salendo sul bus. A un certo punto una delle persone vicine all’uomo con la catena d’oro aveva colpito un vecchio. M. chiuse gli occhi, guardo E. il suo amico e poi cercò di mettersi comodo.

Non avrebbe saputo mai dire quanto fosse durato il viaggio. Una volta scesi dal bus, venivano spinti in una casa tanto grande quanto sporca. Lui e E. cercavano di capire dove fossero, quando due uomini armati gli hanno intimato di entrare nella casa. Un signore anziano aveva intercettato il loro sguardo interrogativo.

-Siamo in Niger.

In Niger erano stati qualche settimana. Dopo circa 5 o 6 giorni erano riusciti a trovare l’amico dello zio. Quello era arrivato da loro. Gli aveva spiegato che da lì a poco sarebbero ripartiti, direzione Libia. Lì avrebbero avuto un lavoro, sarebbero stati trattati bene e poi sarebbero andati in Europa. Tutto preparato fino al minimo dettaglio, “non dovete preoccuparvi” diceva. Sorrideva ogni volta che parlava, mostrando due denti d’oro.

-Vostro zio ha fatto degli errori, ci vuole ancora qualche franco per chiudere al meglio il tutto, capite che in Libia vi ripagherete di tutto. Non posso fare eccezioni con voi altrimenti dovrei farle con tutti.

M. e E. diedero una mazzetta di franchi con cui erano partiti, quello aveva sorriso e dopo essersi congedato si era avvicinato a una coppia. M. e E. lo guardavano mentre parlava con loro, non sentivano il contenuto del discorso ma lo immaginavano bene. La donna si era poi alzata e aveva seguito l’amico dello zio.

M. la sera si era svegliato, aveva visto quella donna rientrare nello stanzone. Era piena di lividi, le vesti strappate. Lo sguardo vitreo. Perdeva sangue in mezzo alle gambe.

In Libia erano arrivati di mattina. Di nuovo venivano stipati in un’altra casa. Qui c’erano solo ragazzi giovani come loro. L’amico dello zio era venuto con loro poi aveva presentato a tutti un certo Ahmed. Aveva detto loro che avrebbero lavorato per lui.

Lavoravano in un cantiere. Non sapevano bene cosa stessero costruendo, ma avevano capito tutti che era meglio non farsi domande. Anche se E. qualcuna se la faceva. Tipo, quando sarebbero stati pagati? M. non gli dava corda, non se lo chiedeva e non voleva risposte. Voleva solo dormire. E. invece condivideva il suo malumore con alcuni ragazzi. Finché uno di questi non aveva trovato il coraggio di parlarne con Ahmed.

M . e E. non potranno mai dimenticare le urla di quel ragazzo. Quando gli uomini di Ahmed lo avevano riportato nel salone dove tutti dormivano era calato il silenzio, rotto dagli ansimi del ragazzo o di quello che ne restava. Non superò la notte.

Ahmed era nervoso. Urlava parole in arabo o dialetto libico. A un certo punto alcune guardie di Ahmed avevano raggruppato i ragazzi in due gruppi. E. e M. erano in due gruppi diversi. Senza fare in tempo a salutarsi, erano stati separati. Quella è stata l’ultima volta che M. lo vide. M. aveva chiuso gli occhi colmi di lacrime. Non voleva essere visto piangere.

***

Sul gommone il caldo e la sete sono insopportabili. Ancora un sorso di acqua di mare e potrebbe morire. Si è aggrappato a tutto quello che aveva per rimanere sano, ma ormai ha esaurito le forze.  Se questa dev’essere la fine, può solo sperare che arrivi presto.

Il silenzio angosciante del mare viene rotto da una voce. È un signore imbarcato con lui. Dice che vede qualcosa. Sarà l’ennesimo delirio, pensa. Il caldo e la sete fanno questo e altro.

Ma quello continua a urlare e M. vorrebbe alzarsi e dirgli di smetterla, dirgli che è finita, che il Mediterraneo sarà la loro tomba che…

La vede, vede avvicinarsi la nave. Nel muoversi fa infrangere le onde. Quando gli operatori della nave arrivano, M si asciuga il volto, ma questa volta non è il mare a bagnarlo. Sono lacrime, lacrime di gioia.