di Roberto Cascino 

Attenzione: questo è un articolo pieno di speranzaTM, che poi è anche il motivo principale per cui Il Pulmino Verde continua ad operare grazie agli sforzi di tutti i volontari e dei sostenitori.

In Grecia, da quando i talebani sono tornati al potere, sono stati intensificati i controlli sul confine esterno verso la Turchia. È stato eretto un muro lungo 40 km, equipaggiato con le più moderne tecnologie anti respingimento, con gadget tecnologici per gli agenti che suscitano l’invidia dei colleghi croati. Il timore è che presto arrivino fino a 500 mila persone che proveranno con i soliti mezzi ad entrare nel cuore dell’Europa.

In realtà, secondo un rapporto di metà luglio di UNHCR dell’intera popolazione dell’Afghanistan (38 milioni di persone) fino ad un terzo sarebbe disposto ad abbandonare le proprie case per sfuggire al nuovo Emirato Islamico.

 

L’Ue ha garantito negli ultimi anni milioni di euro al governo greco per fronteggiare la crisi migratoria, spesso chiudendo un occhio sulla gestione poco trasparente dei campi profughi e sui respingimenti che avvengono, in maniera del tutto illegale, sulla frontiera tra i due Paesi.

Bruxelles ha quindi avviato delle indagini più scrupolose, a seguito della più recente richiesta di fondi avanzata da Atene, per sincerarsi del modo in cui questi soldi vengono effettivamente spesi e delle condizioni in cui versano le migliaia di persone già presenti sul territorio greco.

In cosa si traducono, all’atto pratico, questi chilometri di cifre che vengono scritte e parole pronunciate in ogni discorso possibile da autorità di ogni ordine e grado delle istituzioni comunitarie e nazionali? In niente, ovviamente. Discorsi adattatati per le tribune politiche e televisive di ieri che oggi, complice una notizia più recente e un evento più chiacchierato sui social, lasciano spazio ad altre chiacchiere.

I Paesi europei, che dovrebbero interessarsi alla situazione, al momento se ne lavano le mani: c’è l’economia da far ripartire, le elezioni che incombono sempre e ovviamente il Covid.

 

Foto: Nicola Franchini

Tipica scena di Realpolitik nelle cancellerie occidentali

E poi c’è il cugino Visegrad. Abbiamo bisogno anche noi di allungare la lista dei discorsi inutilmente prolissi, spendendo parole di rammarico per un comportamento tanto intransigente quanto miope?

La situazione di stallo apparente è un modo per decidere di non decidere. Per creare un tappo all’esodo dei profughi afghani (e iraniani, siriani, iracheni) e intasare ulteriormente la rotta che conduce, a piedi, dal Medio Oriente fino a casa nostra.

 

La trovata eccezionale è di non indirizzare in nessun modo la questione fino a che questa non si presenta nel cortile di casa, con la speranza che ciò accada il più tardi possibile. Una scelta non troppo diversa da quella presa nel 2016 quando, stringendo un patto col diavolo con Erdogan, l’Ue finanziò con miliardi di euro campi profughi da centinaia di migliaia di persone che vivevano, e vivono tutt’oggi, in condizioni misere.

Quell’accordo, unito alla mancata volontà politica di imporre un serio accordo di redistribuzione tra i Paesi membri dell’Unione ha condannato le isole greche, Lesbo, Chios e Samo su tutte, a trasformarsi in una prigione per decine di migliaia di individui.

Ora, sembra che la storia voglia ripetersi ancora una volta. Non perché i talebani hanno ripreso il potere sull’Afghanistan, ma perché, esattamente come nel 2015, milioni di persone che fuggono dal loro Paese spaventati dallo spettro della guerra, della fame e del dolore arrivano alla porta d’Europa e qui trovano il cancello sbarrato.

Nell’incipit di questo articolo parlavamo di speranzaTM. Dove sta, in tutta questa storia, magari ve lo state chiedendo fin dall’inizio.

La speranzaTM in realtà è davvero tanta: mai, nella storia dell’umanità, è stato organizzato un ponte aereo per i civili in grado di istituire dei corridoi umanitari così efficaci da trasportare centinaia di migliaia di persone al di fuori di una situazione così critica.

Non possiamo dimenticare i milioni di individui che ancora aspettano, sperano e pregano per un passaggio sicuro al di fuori dell’Afghanistan governato da una dittatura teocratica: non lo faremo. Terremo aperti gli occhi, noi tutti, ed eserciteremo quanta più pressione mediatica, politica e sociale potremo per far giungere in un posto sicuro tutti quelli che potranno.

 

Eh bé dite voi, sai che roba la pressione mediatica, politica e sociale. Vero, ma in quanti ricordano il conflitto in Tigray? O la guerra civile in Libia? O la vicenda riguardante il cooperante italiano Mario Paciolla, assassinato in Colombia lo scorso anno?

In questo caso la società civile europea può fare davvero la differenza, non condannando all’oblio una storia che per tanti motivi ci ha coinvolto nel corso degli ultimi 20 anni e non solo degli ultimi 20 giorni.

Noi, i cittadini dell’Unione europea, dobbiamo prendere coscienza della situazione e aprire gli occhi e farli aprire a chi prende le decisioni per il nostro futuro. La politica dell’imbuto, dello stallo, del non decisionismo non porta da nessuna parte, crea solo rancore, acuisce la violenza di chi la subisce e ci mette in trappola di fronte alle nostre responsabilità in futuro.

Poi ci sono loro, le persone in movimento. 500 mila, o 5 milioni che già stanno marciando lungo le strade polverose che da Kabul conducono verso l’Iran, poi fino in Turchia e poi chissà dove. Sono miliardi di passi inesorabili, inarrestabili che non si possono fermare con muri e neppure con il mare perché dietro non si può tornare e si può marciare solo in avanti. Loro la disperazione già l’hanno conosciuta, c’è una cosa sola che conservano per il futuro.

Già©.