di Mathieu Porcellana 

Istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco Napolitano (art. 12 della legge 40/1998), i Centri di Permanenza Temporanea, poi denominati Cie (Centri di identificazione ed espulsione) dalla legge Bossi Fini (L 189/2002), e infine rinominati Cpr (Centri di Permanenza per i Rimpatri) dalla legge Minniti-Orlando (L 46/2017), sono strutture detentive dove vengono reclusi i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno.

Non sono altro che prigioni… prigioni dove tengono gli sfigati della Terra

In base all’art. 14 del T.U. 286/1998, come successivamente modificato dalla legge Bossi Fini (L 189/2002), dal Pacchetto Sicurezza (L 94/2009), dal decreto di recepimento della Direttiva Rimpatri (L 129/2011) il trattenimento nei Centri veniva disposto dal Questore per un tempo di 30 giorni, prorogabile per un massimo totale di 18 mesi “quando non sia possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera o il respingimento, a causa di situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l’effettuazione dell’allontanamento…”.

A ottobre del 2014, un emendamento dei senatori Manconi e Lo Giudice alla legge Europea 2013 bis, ha consentito la riduzione del periodo massimo di trattenimento degli stranieri all’interno dei Cie a novanta giorni.

-Sono arrivato lì nel 2011, con l’esercito, facevamo servizio con i carabinieri e i poliziotti. Avevamo fatto l’addestramento per l’Afghanistan, ma poi ci avevano assegnato a questo. Alla fine per noi erano soldi facili. Facevi il tuo turno e poi avevi la giornata libera. 

Il mio interlocutore ha 35 anni. Siamo in un baretto anonimo di Torino. Il posto l’ha scelto lui. Uno dei pochi con ancora una sala fumatori.  

Dopo la storia di Moussa Balde, il ragazzo morto al cpr di Torino, ho avuto voglia di scrivere qualcosa su questi posti, di cui solo adesso si parla in una certa maniera. Lui mi aveva approcciato a una manifestazione davanti alla prefettura. 

-Prima si chiamavano Cie ora cpr ma sempre lager rimangono. Non basta un nome per abbellire la realtà. 

L’uomo davanti a me è un militare in congedo, alpino per l’esattezza. Dopo che ci eravamo conosciuti avevamo iniziato a scriverci. Dopodiché, mi ha chiesto di vederci per raccontarmi la sua storia. 

Capelli e barba rasati alla perfezione, camicia scura che sembra stia per scoppiare talmente è grosso. Non faccio fatica a immaginarmelo in mimetica con fucile in mano. 

Ha uno sguardo freddo. Due occhi glaciali che mi scrutano. 

Mi ha chiesto solo di rimanere anonimo. 

Mi guarda con un ghigno, poi si accende una sigaretta e mi mostra delle foto dal cellulare. 

Nelle foto, ragazzi in mimetica con scudo e manganello che fanno gli scemi. 

-Era vietato farsi le foto, ma chissenefrega no? Per noi era un gioco. Eravamo tutti una manica di cazzoni in divisa. I manganelli e gli scudi erano solo giocattoli per noi, voglio dire ti annoi di brutto a fare quelle pattuglie inutili di fronte a gente che sta chiusa in gabbie, mi raccomando gabbie non celle, che non sa nulla del perché siano lì. Non dico che alcuni non se lo meritassero. Figurati. Alcuni erano dei veri bastardi. Uno di questi era un pedofilo. L’idea che ci fosse un pedofilo in quelle celle mi dava il voltastomaco, così l’abbiamo tolto dalle gabbie d’isolamento e l’abbiamo messo con gli altri. 

-Che cosa gli è successo? 

-Me lo chiedi pure? L’hanno picchiato e stuprato tutto il giorno e tutta la notte. Noi lo sapevamo. Ma era un pedofilo schifoso cazzo. Fosse stato per me gli avrei sparato nelle palle. 

Dice queste cose in modo arrabbiato, provocatorio, ma come se volesse provocare più se stesso che me. Mi accendo una sigaretta. 

-Prima di tutto mi sai dire di più su come è strutturato quel posto? 

-I giornali ne hanno parlato abbondantemente no?

-Sì ma non voglio questo, voglio le sensazioni, com’era arrivare li? Che si provava? Era sporco o pulito? 

Lui spegne la sigaretta. Si massaggia il mento e mi fissa gelido. Si accende una sigaretta e comincia. 

-Era un lavoro, alla pari di un impiegato. Avevi la tua routine, il tuo giro nulla più, nulla meno. Dovevi solo sperare di finire con un collega simpatico altrimenti non ti passava più. Non vedevi quelli che ti stavano attorno. O comunque non lo realizzavi. Troppo concentrato su quello che avresti fatto una volta smontato dal turno. Ogni tanto facevi la ronda con i carabinieri. Beh quelli non li sopportavo, una manica di esaltati, si sentivano più fighi di noi. Però ecco quello. Si certo facevi delle chiacchiere con i ragazzi chiusi dentro. Roba così. Di certo nessuno di noi si aspettava di vedere quello che abbiamo visto

-La rivolta? Lo incalzo. 

Si fa scuro in volto. Beve una lunga sorsata di birra e ricomincia. 

Sapevano benissimo che sarebbe scoppiata, ma è stata gestita alla cazzo. Tutto è successo con una gabbia che ha iniziato a insultare noi di pattuglia. Le solite cose, ci sei abituato. Nessuno si era accorto che dall’altra parte stavano segando una parete della gabbia e si preparavano a uscire. Ed era solo l’inizio. Siamo accorsi in tre a cercare di fermare quelli. 

E fin li cazzo era il nostro lavoro. Il gioco delle parti no? Guardie e fottuti ladri. Quelli corrono e noi li inseguiamo, quelli attaccano e noi rispondiamo. Ma cazzo quelli sono in troppi. Ti lanciano addosso di tutto, dalla carta igienica bruciata alla merda. Schegge di qualunque tipo. Ci siamo ritrovati in tre a fermare un fiume di gente che correva. Noi avevamo i manganelli e li colpivamo per fermarli. Li colpivamo sulle cosce prima e poi tra spalla e collo e allora si che cadevano a terra. 

Un ragazzo di quelli, credo fosse egiziano, mi chiamava Rambo. Ci facevo sempre due chiacchiere con lui. Mi raccontava che voleva andare in Spagna dalla famiglia. Beh ho afferrato uno a caso e non mi capita proprio lui? L’ho rilanciato nella mischia e l’ho lasciato andare. Ma un altro no. Ero arrabbiato tanto arrabbiato. Così ho iniziato a colpirlo. Un collega mi ha dovuto fermare.

-Perché è scoppiata la rivolta? 

-Che domande del cazzo, sei in una prigione no? Che faresti tu? Sei circondato da guardie che passano il tempo a trattarti come un animale. C’era questo carabiniere che li chiamava bestie. Proprio così, diceva che erano solo delle bestie e con le bestie non ci si ragiona. Salvo poi prodigarsi in mille inchini quando sono arrivati i gheddafiani. Ma questa è un’altra storia. La Croce Rossa invece  il massimo che faceva era rincoglionirgli di terapia. Terapia poi… Tranquillante per cavalli. Ci mettevano il tabacco a macerare per fumarlo e sballarsi.

Sai credi di aver visto tutto, di essere un duro ecco. Ma non è così. Eravamo solo dei ragazzini. 

La voce gli trema. La faccia gli si blocca in una paresi. Una lacrima gli solca il viso. 

-Abbiamo tenuto testa a loro, fino a quando sono arrivati i celerini, ste merde. Hanno trasformato il tutto dal campo di battaglia che era in una macelleria. Una schifosa macelleria. Noi eravamo folli di rabbia e colpivamo. Ragazzi legati ai pali pestati dai militari. Gli sbirri ci incitavano a essere feroci. Ci dicevano “colpite quelle merde”.

-Tu l’hai fatto? 

-Eseguivo degli ordini! Dei fottuti ordini. Ho provato a non farlo. Un ragazzo era ammanettato a un palo tre militari lo picchiavano con i manganelli, mentre un celerino assisteva compiaciuto. Ho provato a fermarli ma quello mi ha colpito e io l’ho colpito di rimando. Non sono riuscito a fare un cazzo per quel ragazzo.

Eseguivo degli ordini. 

Hanno messo in bocca a uno dei prigionieri un rotolo di carta igienica, dopo avergli fatto saltare tutti i denti a calci. Tutti. Per bloccare il sangue. Vedevi questi sfigati in divisa che sfogavano tutta la loro mediocrità contro gente inerme. Sembravano posseduti. 

Quando siamo tornati in caserma non ho dormito. Mi sono buttato a letto con la mimetica sporca e non l’ho più cambiata per una settimana. Ho iniziato a bere, ogni volta che mi vedevo allo specchio vedevo quella faccia goduta dello sbirro che mi diceva “anche tu sei stato”. 

Tu pensa che ci hanno dato pure l’encomio per l’eroismo dimostrato. Come se ci fosse qualcosa di eroico nell’essere un lupo in mezzo alle pecore

Era il 2011. Quando ancora dei Cie non fregava un cazzo a nessuno. Dov’erano quelli che oggi si indignano dei Cie? Dovevano morire dei poveri stronzi perché si cominciasse a parlarne

Io ho cercato di dimenticare tutto. Ma non puoi farlo. Non sono mai voluto andare a quelle manifestazioni che fanno adesso. Mi dicevo che erano solo degli ipocriti. Ma la verità è che non ho mai smesso di sentirmi in colpa. Avrei sentito gli occhi di tutti addosso. Magari qualcuno avrebbe puntato il dito contro di me riconoscendomi. Me li vedo a dirmi “Anche lui è un assassino”. Ma io non le ho volute le mani sporche di quel sangue, non è stata una mia scelta finire lì. 

Sai qual ‘è la cosa che fa più male? 

-No

-Ho fatto il soldato per lo spirito di avventura, per i soldi, per non so nemmeno io cosa. Sognavamo di fare le missioni, girare il mondo o cazzo ne so… e l’unica cosa che ho fatto è stato fare il macellaio di stato

Ora le lacrime scendono come un fiume in piena. China la testa. Del volto truce che avevo di fronte è rimasto solo un vago ricordo. Ora è solo una persona che ha guardato di nuovo i suoi fantasmi in faccia. 

-Non c’è onore in tutto questo. Dice tra le lacrime. 

Dopo altre due birre e tanti altri dettagli di quella rivolta ci salutiamo. Se prima ci eravamo salutati con una fredda stretta di mano ora mi abbraccia. 

Mi rimangono impresse le sue parole “eseguivo solo degli ordini“. A nulla è servito provare a consolarlo, alleviare il suo senso di colpa. A nulla. Ma non voleva quello, al giudizio ci andrà con la fierezza del soldato che avrebbe voluto essere. 

Sperando che la sua testimonianza possa servire a qualcosa

Affinché i vari Moussa Balde uccisi dallo Stato italiano possano trovare finalmente pace. Affinché ciò non succeda più.