di Adna Čamdžić 

Il Polski Kot presenta Slavika, il festival delle culture slave che si terrà dal 17 al 19 marzo a Torino.

Per conoscere tutti gli eventi, è possibile scaricare da qui il volantino.

E se volete sostenere il festival, i gadget della rusalka li trovate qui

 

Mi piace immaginare “Slavika 2023” come il festival delle rusalke: cerchi concentrici di danze tradizionali (leggi “chorovod”), ghirlande di fiori, figure mitologiche, intrecci tra corpi umani e non umani, ibridazioni, assemblaggi e rinascite dai resti di un mondo dato per perduto, dimenticato, scartato, lasciato da parte, come una natura troppo selvaggia per essere domata e quindi nascosta ai margini, ma che in fondo sappiamo non si piegherà mai del tutto all’ordine del mondo civilizzato, tornerà trasformata come uno spettro dato per morto ma vivo più che mai.

 

Riappropriarsi della rusalka 

Nonostante la sua parentela con le sirene europee, la rusalka è una figura mitologica riconducibile al folklore slavo, dove assume la forma di un’entità femminile (una sorta di Baba Jaga) ambivalente e sfaccettata, che abita o si nasconde intorno a fonti di acqua dolce: è possibile trovarla in laghi, fiumi, paludi o qualsiasi altro specchio d’acqua più grande. Lungi dall’essere una piccola principessa innocente, la rusalka è tradizionalmente rappresentata come l’anima o lo spirito di una bellissima fanciulla “impura” morta prematuramente e in modo non naturale. In genere si tratta di donne assassinate, stuprate, uccise in modi violenti e per questo portatrici di una forza vendicatrice, soprannaturale e minacciosa.

Spesso raffigurata da artisti maschi come una donna dal corpo  nudo, lunghi capelli verdi o biondi, la rusalka assume la forma di uno spirito malvagio con intenti omicidi: se sei un uomo e ti dovesse capitare di camminare da solo al buio e incontrare una donna seducente che ti invita a fare una nuotata di mezzanotte, beh, pensaci due volte: uomo avvisato, mezzo salvato!

Ovviamente nessuna figura mitologica è scolpita nella pietra. Nel periodo post-sovietico, la rusalka è stata oggetto di una maggiore riappropriazione da parte di  autrici e scrittrici donne (vedi “Rusalka” di Anna Melikjan, 2007) che hanno evidenziato le numerose sfaccettature di questa figura e che hanno tentato di ripensare il ruolo della donna e la concezione della femminilità nel mondo slavo contemporaneo¹

In modo analogo Slavika 2023 si riappropria della rusalka, invitando l’osservatore a interfacciarsi con la sua nudità quasi androgina, non-umana. A una prima lettura potremmo essere tratti in inganno, la rusalka sembra quasi richiamare la figura della sirenetta Ariel: capelli lunghi rossi, aspetto innocente. Ma la nostra rusalka ha un elemento in più: nella mano destra regge un ombrello nero, che invita a distogliere lo sguardo dal corpo individuale, che a una lettura più attenta si tramuta in un corpo collettivo, quello di tutte le donne che subiscono continuamente violazioni dei propri diritti riproduttivi, in Polonia e altrove².

La nostra rusalka è un essere magico, ma non per questo sereno: è profondamente tormentata ed è il tormento a mobilitare e guidare la sua azione, non per chiedere e ottenere vendetta ma per ottenere riconoscimento e giustizia per i torti subiti da un sistema che ha reso invisibile, troppo a lungo, la sua sofferenza.

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Anna Kańtoch: soggettività femminili e queer

Anna Kańtoch è una delle scrittrici più prolifiche della letteratura polacca contemporanea: a oggi ha all’attivo una ventina di raccolte di racconti e dodici romanzi che abbracciano moltissimi generi letterari, quali new weird, fantasy, fantascienza, thriller, young-adult fiction. Non a caso, la scrittrice in Polonia ha ottenuto per ben cinque volte il Premio Zajdel, premio letterario polacco nell’ambito della fantasy, nonché il Premio Żuławski

In un’intervista uscita per la rivista “Est/ranei”, alla domanda riguardo alla situazione delle scrittrici donne e la ricezione delle loro opere nella Polonia contemporanea (dove si ipotizza un eccessivo tradizionalismo dei ruoli di genere nel fantasy) l’autrice risponde che l’ambiente è sicuramente ostile nei confronti delle donne, ma ciò non ha impedito l’affermarsi delle scrittrici nel campo della letteratura fantastica, anzi ha prodotto un effetto contrario:

“A causa delle politiche decise dal governo, ci sono sempre più persone, soprattutto giovani, che iniziano a ribellarsi e a rivoltare i modelli di genere. Allo stesso modo, le persone più giovani sono sempre più aperte a opere che presentino un punto di vista diverso da quello tradizionale maschile.”

L’importanza delle donne e della visione femminile nel fantasy sembra che sia iniziata a cambiare negli anni ‘90, con l’esordio delle scrittrici Ewa Białołęcka (co-fondatrice del collettivo Harda Horda) e Anna Brzezińska, fino ad arrivare al romanzo “Buio” della stessa Anna Kańtoch, in cui si intrecciano questioni che riguardano l’identità, la sessualità non eteronormativa e la queerness. Il romanzo apre infatti uno spaccato sull’alterità e sugli intrecci tra le rappresentazioni dell’identità nell’ambito della produzione letteraria e nel mondo reale. 

Il fantastico diventa uno strumento in grado di guidare verso una diversa interpretazione del mondo circostante, o per usare le parole di Kańtoch in riferimento a uno dei punti di forza della letteratura: “incoraggia a vedere il mondo diversamente”. 

Al festival delle rusalke presenteremo una recentissima uscita dell’autrice: “Gli Incompiuti” (Moscabianca edizioni, 2023), un libro “di personaggi dalle identità sessuali ribaltate e ambigue: donne dalle qualità virili, uomini efebici, e in mezzo a loro un bambino dal sesso indefinibile” in cui “il mistero più grande non è l’omicidio (vero o presunto) ma la faticosa consapevolezza di essere incompleti”. Ad affiancare l’autrice ci saranno Alessandro Ajres, docente di lingua polacca presso l’università di Bari, e Giulia Randone, slavista per l’occasione nel ruolo di interprete. Appuntamento venerdì 17 marzo alle ore 18:30 presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli.

Jozefina Dautbegović: from what will we reassemble ourselves/ di quale materia saremo composti/ od čega ćemo se mi sastaviti

Mentre con Anna Kańtoch ci siamo scomposti, o decomposti, diventando humus, materia viva del sottosuolo, diventando altro e in quell’altro forse ritrovando noi stessi, con Jozefina Dautbegović ci chiediamo di quale materia saremo composti una volta che ci ri-assembleremo? 

Il riferimento è alla sua poesia “Non identificati” (Neidentificirani) da cui è nato il progetto “From what will we reassemble ourselves? che ha riunito sei artisti contemporanei, un team di ricercatori e un architetto per riflettere sulla questione posta da Dautbegović, riletta in questo modo: “Da quali frammenti – immagini, storie, archivi, frammenti storici – è possibile rappresentare la vita dopo il genocidio? Quale prospettiva mettiamo in campo nella rappresentazione?” 

Al progetto hanno preso parte artisti e artiste di fama internazionale quali Lana Čmajčanin, Anna Dasović, Ana Hoffner ex-Prvulovic, Arna Mačkić, Marko Peljhan, Selma Selman, Hito Steyerl, Facing Srebrenica Project, che hanno dato vita ad una mostra collettiva che indaga la rappresentazione del genocidio di Srebrenica in Bosnia ed Erzegovina. Lo spettatore è invitato a identificarsi e a scrutare la posizione di coloro che osservano la violenza genocida dall’esterno – che diventano testimoni indiretti delle atrocità – e ad esplorare nuovi modi di porsi di fronte alla violenza. 

Sfidando lo sguardo militare, che trasforma il corpo femminile in un territorio da circoscrivere e conquistare, il progetto pone al centro le voci e sui corpi femminili, femministi e queer che, attraverso la rielaborazione artistica, non sono più vittime passive dello sguardo esterno, ma sono corpi spogliati dell’abito della vergogna, liberi di creare e vivere. Il punto di partenza è il corpo, la materia, sono le ossa che ritroviamo nella poesia di Dautbegović. Il corpo è il luogo da cui proviene il ricordo e anche il luogo da cui decideremo nuovamente di amarci, è la vita che continua (con altre forme) anche dopo il genocidio. 

Leggiamo sul sito: “ogni prospettiva rappresentata nella mostra offre spunti verso il riassemblaggio – verso la reimmaginazione – della memoria della violenza e della perdita, riconoscendo che le vite hanno continuato a essere vissute nonostante quella violenza”.

“Non identificati”

Come in una fossa comune

ognuno è morto della sua propria morte

a quanto si dice 

per amore

della stessa cosa

Che cosa fa la sua clavicola accanto a quest’osso frontale

E a cosa assomiglierà quel tale

composto da pezzi diversi

quando arriverà il giorno

della resurrezione

E soprattutto mi chiedo

Di quale materia saremo composti

se di nuovo

decideremo di amarci

Non esiste un ordine delle cose dato in precedenza

Le stesse cose si possono eseguire in più modi

Riduzione mirata semantica 

grammatica comunicazione

un uomo espone a lezione

cose che non hanno nulla a che fare con quelle di cui sopra

Lui non sa che nella vita tutto è

la stessa identica cosa

Come un filo teso da una parte all’altra del cortile

sul quale solo ogni tanto

il bucato viene cambiato. 

Zagabria, 20. X. 2001

La presentazione della raccolta di poesie “Il tempo degli spaventapasseri” di Jozefina Dautbegović si terrà al Circolo dei Lettori, il 18 marzo alle ore 16.30. Saranno presenti la traduttrice Neval Berber e la curatrice e poetessa Bianca Tarozzi, in dialogo con Vesna Ščepanović, giornalista italo-jugoslava dagli anni ’90, ricercatrice indipendente in ambito culturale e letterario, attiva nelle lotte per i diritti delle donne e nei movimenti per i diritti dei migranti. 

Unsafe Goražde: un docufilm per riassemblare il corpo collettivo

Nella poesia di Jozefina Dautbegović il corpo si è fatto materia, dando origine ad una composizione nuova, diversa dall’ordine delle cose dato in precedenza, è diventato un assemblaggio che combina elementi e frammenti in grado di trasformarsi e rigenerarsi dando vita a combinazioni sempre nuove seppure siano sempre la stessa identica cosa. 

La carne, il sangue, le ossa – materia che sa leggere e scrivere – non cessano mai di rileggere e riscrivere se stessi attraverso infinite incarnazioni.³  (Caleo, 2021)

Nel suo libro l’autrice, Ilenia Caleo, interroga la dinamicità dei corpi e la loro capacità di istituire nuove forme di organizzazione – sia a livello individuale che sociale – secondo una logica per cui nell’atto (performativo) di collisione, corpi diversi sono in grado di influenzarsi, lasciandosi vicendevolmente tracce materiali e immateriali – sotto forma di affetti, emozioni, impressioni. 

Mentre nella cultura occidentale si assume che il dolore sia un’esperienza puramente individuale e quindi inaccessibile e incomunicabile agli altri, Caleo, attraverso gli scritti di Sarah Ahmed, riporta in primo piano la dimensione sociale ed etica che costituisce l’esperienza del dolore, invocando la presenza necessaria degli altri in qualità di testimoni: 

La comprensione del proprio dolore viene veicolata attraverso la mediazione dell’altro, ma fino a che punto? E come evitare che la sofferenza empatica diventi strumento di uno sguardo esterno privo di alcun senso critico? Come evitare la strumentalizzazione della vittima e del suo dolore? 

Prendiamo in esame il docufilm girato da Enrico Dagnino e prodotto dall’associazione culturale Kuma International (con sede a Sarajevo), “Unsafe Goražde. Il documentario racconta la storia della cittadina bosniaca di Goražde e l’esperienza dei suoi abitanti, sopravvissuti alla guerra difendendo le proprie case da un assedio durato quasi quattro anni (1992-1995).

Giuseppe Conte Covid

“Fuad Bavčić, un economista in pensione e veterano di guerra che ha trascorso gli anni dell’assedio a Goražde prima di ricongiungersi con la famiglia a Sarajevo, incontra alcuni dei protagonisti dell’eroica difesa della città: comandanti, soldati, dottori, ingegneri ma anche giornalisti, operatori culturali, musicisti, gente comune. Dalle conversazioni di Fuad con i suoi concittadini, emerge una storia collettiva di grande coraggio e dignità che parla di amore per la propria famiglia, città e Paese⁴”

Ci troviamo di fronte a un atto di coraggio collettivo: l’esperienza traumatica della guerra, che ha portato le persone ad auto-organizzare la propria difesa ed escogitare tattiche di sopravvivenza, diventa – attraverso la mediazione del regista – un’esperienza trasformativa. 

La creazione di alleanze è in grado di catalizzare se non superare il risentimento nei confronti del carnefice: “the people we spoke to don’t carry hatred with them, despite the horror they have experienced⁵” riferisce Claudia Zini, direttrice di Kuma International.

In termini di geometria affettiva, scrive Ilenia Caleo seguendo Spinoza, una passione negativa e triste può essere contrastata unicamente da una passione o forza generativa in grado di produrre più potenza: “non si trasforma il risentimento con altro risentimento” (p. 204). Servono nuove “grammatiche emotive” che possano aiutarci a prefigurare nuove alleanze e nuove politiche di prossimità tra soggettività al di là del livellamento populista e identitario. 

Se le istituzioni culturali, come Kuma International, siano in grado di  innescare una riflessione critica sulle relazioni di potere implicate nella costruzione delle emotività e delle memorie, aprendo la strada alla giustizia trasformativa, rimane una questione aperta. Ne discutiamo insieme il 18 marzo alle ore  21.30 dopo la proiezione del film “Unsafe Goražde” insieme a Donatella Sasso, giornalista e precedentemente ricercatrice di storia contemporanea presso l’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini, Arianna Piacentini, ricercatrice post-doc presso l’Università degli studi di Bologna e docente presso l’Università degli Studi di Milano e Chiara Bosco (TojeTo), attrice, pedagoga e regista teatrale che si occupa di teatro civile con la compagnia Doppeltraum Teatro, con cui ha recentemente portato in scena lo spettacolo “Fuga da Sarajevo”.

Sandormoch: il ruolo della memoria storica nella Russia contemporanea

Dalla memoria storica del genocidio in Bosnia, facciamo un salto spaziale verso la Russia contemporanea. Siamo nel 2022. Al momento in cui questo testo viene scritto Jurij Dmitriev, che insieme a Irina Flige è stato lo scopritore delle fosse di Sandormoch, si trova in prigione. Arrestato nel 2016 con accuse fabbricate, fu processato e assolto, per essere nuovamente processato nel 2018 e condannato a 15 anni di reclusione

Inoltre, Memorial, che è la maggiore organizzazione russa che si occupa della memoria delle repressioni e di difesa dei diritti civili, nonostante il recente Nobel per la Pace e il riconoscimento – anche da parte delle stesse autorità russe – del valore del suo lavoro di ricerca storica, ha subito diversi processi, dal 2013 è registrato come “agente straniero”, mentre alla fine del 2021 due branche di Memorial (Memorial Internazionale e il Centro per la Difesa dei diritti umani) sono state liquidate

Questo tipo di trattamento è stato riservato non solo alle organizzazioni che si occupano di memoria storica (giusto per fare un esempio, in Russia ora ogni dichiarazione che sminuisca il ruolo dell’URSS nella seconda guerra mondiale è equiparata, per legge, alla riabilitazione del nazismo, così come è reato chiamare guerra ciò che sta accadendo in Ucraina), ma, soprattutto a partire dal 2020, a qualsiasi organizzazione no-profit che non sia in linea con il governo.

Negli ultimi due anni sono state proprio le organizzazioni che si occupano di questioni di genere, violenza di genere, femminismi, diritti e identità LGBT+, questioni ecologiche e – guarda caso – di legalità e lotta alla corruzione a essere dichiarate agenti stranieri, e, nei casi più estremi, organizzazioni estremiste e terroriste (è il caso di FBK, l’organizzazione messa su da Naval’nyj, giusto per citare un nome noto a tutti). Fu clamoroso il caso di Nasiliju.net (No alla violenza) che forniva aiuto alle vittime di violenza domestica. 

Insomma, l’obiettivo del governo russo sembra proprio quello di togliere alle persone qualsiasi possibilità di mutuo soccorso e di solidarietà, sia impedendo alle persone di chiamare le cose (e loro stessi) con il loro nome nel presente, sia depredandole della memoria del proprio passato, anche di quello personale e famigliare.

 

Alla luce della situazione attuale, la traduzione di “Il caso Sandormoch. La Russia e la persecuzione della memoria” di Irina Flige risulta particolarmente rilevante. Nonostante abbia a che fare in primo luogo con il regime staliniano, il testo, nella traduzione di Giulia de Florio, apre una riflessione più che mai essenziale sul ruolo della memoria storica, sulla situazione di coloro che si occupano di preservazione e riscoperta di eventi passati, sulla commemorazione delle vittime e l’identificazione dei carnefici nella Russia contemporanea

Ne discuteremo con Giulia De Florio, socia di Memorial Italia e docente di letteratura russa presso l’Università di Parma e Andrea Gullotta, presidente di Memorial Italia e docente di letteratura russa presso l’Università di Palermo. Sabato 18 marzo alle 18.30 presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli.

Aesopian Language. Vietato parlare, impossibile tacere

Rimaniamo nel contesto della Russia contemporanea, rimaniamo tra i margini, che intendiamo non come semplici luoghi di privazione e di alienazione dei soggetti, in quanto esclusi da dinamiche di partecipazione politica, ma come luoghi di “radicale possibilità”. 

Qui ci viene nuovamente in aiuto Ilenia Caleo che, riprendendo il concetto di margine di bell hooks, guarda alla capacità dell’arte di mettere al mondo nuove modalità generative e nuovi linguaggi attraverso sperimentazioni linguistiche e stilistiche che non sono pura forma ed estetica ma strumenti di rovesciamento dei meccanismi di oppressione

Laddove è vietato parlare e impossibile tacere, in Belarus o in Russia nella distopia putiniana, il linguaggio è letto come marchio di opposizione e di protesta. Si tratta di un linguaggio che spesso si fa esopico. 

Il termine esopico rimanda alle favole allegoriche dello scrittore greco antico Esopo ma fa anche riferimento a una serie di espedienti linguistici ampiamente utilizzati in epoca sovietica da scrittori e pubblicisti per aggirare la censura politica tramite il ricorso ad allusioni, eufemismi, significati nascosti. 

Come raccontato da Martina Napolitano nel suo articolo uscito per Meridiano 13, il linguaggio “esopico” oggi si riafferma come codice segreto che permette la libera espressione e lo “scollamento” dal linguaggio distopico promosso da fonti ufficiali governative, che utilizzando lo slittamento lessicale come parte di una politica di condivisione di informazioni edulcorate al fine di “non seminare il panico” tra la popolazione. 

Parole e colori si fanno “scudo di resistenza” e tra i marcatori delle piante nel giardino botanico dell’università statale di Mosca compaiono le scritte “meglio i fiori dei proiettili”, “estirpare erbacce e tiranni” (con vari giochi di parole). 

Ma è anche vero che, in un contesto come quello della Russia contemporanea, il linguaggio esopico può potenzialmente costituire un pretesto per sanzioni, condanne o accuse di diffusione di “fake news”. Ne parleremo con Aleksandra Archipova, linguista e antropologa russa attualmente a Parigi presso EHESS, che introdurrà la mostra “Aesopian Language” con un intervento su linguaggio e contemporaneità in Russia. Venerdì 17 marzo alle 21.00 presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli.

Bialowieza Vittorio Zampinetti

A seguire inaugurazione della mostra a cura di Anna Cherfanova. In collaborazione con MORS, Festival internazionale indipendente di illustrazione del libro e letteratura visiva. Senza utilizzare il testo verbale, le artiste creano una narrazione sfaccettata in cui tutto può essere egualmente importante e avere un significato nascosto: il titolo dell’opera, la data, il paese e il luogo di creazione, gli eventi della vita dell’artista, il suo ambiente.

La mostra sarà visitabile presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli per tutta la durata del Festival. Artiste: Anya Mihailova (@annamihailovaillustration), Katsiaryna Dubovik (@creepyfreaky_studio), Lilya Matveeva (@risburlit), Olya Terekhova (@karakurt_v_karakurtochke), Stasya Sokolovskaya (@stasyasokolovska), Svetlana Nagaeva (@сhromosonya), Tanya Ivankova (@tanyaivankova), Varvara Prazhka (@varvara_prazhka), Varya Yakovleva (@varya__yakovleva), Yanina Boldyreva (@yaninaboldyreva). 

Drogi Krajowe: la danza delle rusalke

Sull’eco dell’emotività e dell’affettività evocate poco prima, vi introduco il quintetto sperimentale Drogi Krajowe, originario di Poznań (PL) e composto da cinque personalità eterogenee e differenti tra di loro: Michal Giżycki, Ostap Manko, Maciej Karmiński, Hubert Kamiński, che si esibiranno sul palco dell’Unione Culturale con i Pietra Tonale, collettivo torinese di artisti e musicisti che indaga la ricerca musicale e performativa. Sul palco ci saranno in apertura le voci di Folkestra & Folkloro, un gruppo di dodici coriste che eseguiranno musica popolare e tradizionale polacca e slava. La voce sarà il loro unico strumento. 

Assemblaggi improvvisati. Riverberi, suoni, echi. E’ vero che i suoni generano un senso di elevazione spirituale frutto di memorie collettive talvolta ancestrali? 

Senza volerlo siamo finiti nel bel mezzo del cerchio della danza delle rusalke. Sembrerebbe che la parola “rusalka” derivi dal greco antico “rozalja” o “rusalja”, la festività che nel mondo antico veniva celebrata all’inizio di maggio, periodo in cui fiorivano le rose e che corrisponde, nella tradizione slava orientale, alla “Settimana della Trinità”, durante la quale venivano organizzati riti commemorativi e apposte ghirlande di fiori sulle tombe dei defunti. 

Era anche la settimana in cui le rusalke scendevano sulla terra. Al loro ritorno, correndo tra la segale, si esibivano in chorovod, danze dalle radici pagane che consistevano nel formare un cerchio in onore dell’antico dio del sole, Jarilo. 

Nel corso del tempo il carattere della danza non si è alterato in modo significativo e il chorovod continua tutt’oggi a essere ballato in onore dell’arrivo della primavera o durante la notte di Ivan Kupala. Il 19 marzo, in chiusura del festival, vi invitiamo alla nostra danza delle rusalke, un rituale collettivo per evocare l’arrivo della primavera, accompagnati dalla sessione di improvvisazione di Drogi Krajowe e Pietra Tonale. Dalle ore 21.30 in Unione Culturale. In coda, come dj set conclusivo, ci sarà Resmover B2B ꓘrmnƨʞ.

Krzysztof Muszyński e le officine creative – il cammino verso la leggerezza

La mattina di sabato 18 marzo si potrà accedere alle officine creative, ovvero i laboratori di Slavika 2023 pensati per mettere alla prova i nostri corpi e i nostri strumenti: uno di traduzione poetica dal polacco all’italiano, condotto da Riccardo Campion, slavista e traduttore; un secondo, invece, legato al canto e pensato per i bambini bilingue italo-polacchi, che sarà condotto dalla corista polacca Marta Dziubińska. Quest’evento, in via eccezionale, si terrà presso Cartiera, centro protagonismo giovanile. 

Anche domenica 19 l’attività del festival inizierà fin dalla mattina con un laboratorio di illustrazione condotto dall’artista bresciano Francesco Levi, illustratore e collaboratore con Pin-Ac, pinacoteca dell’età evolutiva di Rezzato e docente di SOUX, Scuola di Architettura per bambini di Bergamo/Brescia. Il laboratorio sarà ispirato alle poesie tradotte durante il laboratorio di traduzione poetica dal polacco. 

E passando dall’arte visiva a quella della parola, nel pomeriggio ci sarà la presentazione del libro “Po Lekku” del poeta polacco Krzysztof Muszyński, con la presenza dell’autore. L’incontro sarà accompagnato dai lavori dei partecipanti ai due laboratori. 

Il personale entra in gioco come punto di ingresso privilegiato verso l’assemblaggio collettivo. Dalla dimensione materiale, in cui abbiamo messo alla prova i nostri corpi e i nostri strumenti, si avvia quindi il cammino verso la leggerezza.

Non capisco e non parlo il polacco, ma ho pensato che il modo migliore per concludere questo lungo percorso di una rusalka tormentata sia selezionando una poesia della raccolta poetica di Muszyński in vista della traduzione. Come il libro di Anna Kańtoch anche questo articolo ha qualcosa di incompiuto, in attesa del mediatore o della mediatrice che mi aiuterà ad affrontare il passaggio (przejście) verso il corpo collettivo.

Bialowieza Vittorio Zampinetti
“Przejście”: https://issuu.com/bibliotekaslaska/docs/po_lekku_fragment 

Il programma definitivo di Slavika 2023, in ordine cronologico e di senso compiuto, è disponibile sul sito web dell’associazione Polski Kot, centro culturale torinese che organizza il festival ormai dal lontano 2015. Per approfondimenti sui singoli appuntamenti potete visitare la pagina Facebook e Instagram dell’associazione oppure scrivere direttamente a slavika.fest@gmail.com


Grazie a chi non si è perso in questo percorso, grazie a chi troverà il tempo per esserci di presenza, e soprattutto grazie alle rusalke che hanno contribuito alla scrittura di questa storia – Anastasia Komarova, Anna Mangiullo, Daria Anna Sitek.

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¹ Per un approfondimento e un’analisi del film e della rappresentazione della rusalka vi invito a leggere un articolo pubblicato da Lena Doubivko: Lena Doubivko, “No nailing fins to the floor: ambivalent femininities in Anna Melikian’s The Mermais”, Studies in Russian and Soviet Cinema, 2011 oppure il suo libro “Reclaiming the Rusalka: towards multiplicities of gender in Russian literary and visual culture”, 2013 (che non ho letto ma dal titolo sembra andare nella direzione giusta)

² Nel 2016 l’ombrello nero diventa simbolo delle “proteste nere” (czarny protest), ovvero le proteste di massa in cui decine di migliaia di donne polacche scesero in strada, vestite di nero, a dimostrare contro un tentativo di inasprire la legge sull’aborto. Alcune delle proteste di sono svolte sotto la pioggia autunnale, il che spiega l’ampio uso di ombrelli. Dopo le mobilitazioni, è stato diffuso il motto “Nie składamy parasolek” (Non chiuderemo i nostri ombrelli) e da allora gli ombrelli sono riapparsi ogni volta che si percepisce una minaccia ai diritti riproduttivi delle donne. In merito al tema segnaliamo il libro di Alessandro Ajres, “Aborto senza frontiere”, 2022, che indaga l’uso dell’arte e di gesti creativi nei moti di protesta nella Polonia contemporanea. Al di là della sua presenza nella simbologia presente, l’ombrello sembra essere stato utilizzato dalle suffragette polacche già durante l’indipendenza, nel 1918, come si evince da questo articolo: https://plus.gloswielkopolski.pl/wieszaki-i-parasole-w-walce-o-prawa-kobiet-w-polsce/ar/11442239

³ Ilenia Caleo, “Performance, materia, affetti. Una cartografia femminista”, 2021, p.98

https://unsafegorazde.com/

⁵ “Le persone con cui abbiamo parlato non covano odio, nonostante l’orrore di cui hanno fatto esperienza”, Claudia Zini, Introduzione alla raccolta di fotografie del progetto “Unsafe Gorazde”, https://unsafegorazde.com/book