di Adna Čamdžić 

In questa narrazione ritorneremo sulla prima tappa del progetto “Racconti dalla terra che ci ha portato, insieme a Border Radio, a Roma ad incontrare il prof. Marco Omizzolo, sociologo e docente di sociopolitologia delle migrazioni all’Università La Sapienza di Roma. Qui si occupa di studi e ricerche sui flussi migratori in rapporto al mercato del lavoro e alla criminalità organizzata. 

 

Oltre ad essere autore di numerosi saggi e ricerche nazionali e internazionali, ha pubblicato La Quinta Mafia, Sotto padrone, Per motivi di giustizia, Articolo 1 e Libere per tutte. Da anni vive sotto vigilanza per le numerose minacce subite.

Omizzolo ci ha raccontato con lucida serietà i tanti soprusi che negli anni ha potuto registrare e studiare con l’occhio attento di chi si è calato in prima persona nella realtà del caporalato agricolo, tra sfruttatori e sfruttati, nei non-luoghi tanto simili a quelli che abbiamo visto negli anni e che abbiamo cercato, anche se di certo non al suo livello, di raccontare anche noi.

 

Ripercorriamo il suo lavoro, un faro per chi lotta quotidianamente per la giustizia e la tutela dei diritti di individui che vivono situazioni di sfruttamento e disagio. Ma soprattutto, ci interroghiamo sugli strumenti che possiamo mettere in campo per innescare processi di trasformazione sociale e di liberazione. 

 

La ricerca del prof. Omizzolo non si è mai fermata alla mera compilazione di resoconti accademici, ma si è fatta, in questi anni, azione politica e sociale volta a portare alla luce le diverse realtà del caporalato agricolo. Partiamo, quindi, proprio dal concetto di “ricerca/azione” e dalla domanda che continuamente ci poniamo: cosa possiamo fare per cambiare la società e trasformare le cose che sono intorno a noi?

 

Una pedagogia degli oppressi

Ormai da qualche decennio Omizzolo dedica il suo tempo a mettere in pratica una “pedagogia degli oppressi” (partendo dall’approccio promosso da Paulo Freire) attivando processi di co-costruzione di conoscenza insieme ai lavoratori e lavoratrici schiavizzati/e dell’Agro Pontino

 

Attraverso questa pratica il ricercatore si toglie i panni dell’ esperto arrivato su un territorio con l’idea di esaminare, teorizzare e proporre soluzioni calate dall’alto su problematiche definite a priori. Al contrario, la definizione della problematica stessa è il frutto di una collaborazione con le comunità e gli individui che riflettono attivamente sulla propria posizione, così come lo è la ricerca di soluzioni. 

 

L’attivazione di percorsi orizzontali di presa di conoscenza, votati alla pratica dell’ascolto accogliente, dell’empatia e dell’incontro, diventa condizione necessaria per la ribellione e l’emancipazione degli/le oppressi/e.  La costruzione di relazioni orizzontali fondate sulla fiducia reciproca è il fondamento che può portare alla rottura della gabbia dell’emarginazione, dello schiavismo e dell’oppressione quotidiana.

 

Ricerca-azione in pratica

Tra il giugno e l’agosto del 2010 Omizzolo ha svolto l’attività di bracciante agricolo al seguito dei lavoratori punjabi nelle campagne della provincia di Latina. Infiltrato tra i braccianti indiani nell’agro pontino ha osservato e potuto comprendere i sistemi di reclutamento e sfruttamento ai quali essi sono sottoposti, farne esperienza e valutarne la portata e articolazione – fino a mettere a rischio la sua stessa vita. 

 

Tuttavia, la partecipazione attiva, un’assidua frequentazione della comunità punjabi agropontina e numerose interviste in profondità e video-interviste hanno portato Omizzolo non solo ad acquisire una maggiore comprensione delle pratiche di sfruttamento, ma anche all’elaborazione collettiva di soluzioni per la liberazione dei lavoratori agricoli.

 

La ricerca-azione parte dall’osservazione partecipata per arrivare alla mobilitazione attiva, come quella avvenuta nel Pontino nell’aprile del 2016, quando oltre quattromila braccianti punjabi si sono ribellati rivendicando i propri diritti, denunciando padroni, caporali e mafiosi e innescando una serie di denunce e processi.

 

Capitalismo perverso e predatorio

La migrazione punjabi è un fenomeno relativamente recente per l’Italia. I territori maggiormente interessati dall’arrivo dei punjabi, che spesso provengono da contesti a vocazione agricola, sono comuni costieri dove è praticata l’agricoltura imprenditoriale legata alla Grande distribuzione industriale

 

Secondo uno studio condotto da Omizzolo e Sodano (pubblicato nel 2015) si tratta di città dell’agro pontino quali: Latina, Sabaudia, San Felice Circeo, Pontinia, Terracina, Fondi. I/le lavoratori/rici arrivano in queste aree per diverse motivazioni, che poco hanno a che fare con caratteristiche proprie del gruppo etnico di appartenenza (sfatiamo un luogo comune), ma che sono legate prevalentemente alle caratteristiche intrinseche del sistema occupazionale italiano, molto segmentato e stratificato. 

 

Insomma, i lavoratori punjabi arrivano per colmare quei vuoti che si sono aperti negli ambiti più sacrificati dell’economia nazionale, ovvero nei lavori delle cinque <P>: precari, pesanti, pericolosi, poco pagati, penalizzati socialmente (Ambrosini, 2008). 

 

Nel settore agricolo pontino vi è un’ampia domanda di lavoro che l’offerta locale non è in grado di soddisfare e i lavoratori punjabi vi si inseriscono facilmente grazie a un sistema di reclutamento internazionale, che vede la partecipazione di diverse figure tra cui intermediari (generalmente indiani), imprenditori agricoli pontini, liberi professionisti, impiegati pubblici e organizzazioni malavitose.

 

Tre sono le figure apicali: il trafficante indiano o sponsor (originario del punjab), l’imprenditore agricolo e il gruppo di punjabi interessati a migrare nel pontino. E non si tratta di situazioni eccezionali, ma lo sfruttamento di manodopera sottopagata è l’espressione, o potremmo dire un sintomo, di reti economiche transnazionali.

 

Si tratta perlopiù di reti di produzione e commercializzazione fondate sulla complicità strutturale di diversi soggetti che contribuiscono al mantenimento di una “consorteria criminale”, finalizzata ad ottenere profitto e potere e realizzata non in antitesi, ma all’interno del sistema di produzione economico vigente – un sistema fondato sul razzismo e sullo sfruttamento istituzionalizzato.

 

Non è, quindi, solo una questione legata a caratteristiche intrinseche al sistema del lavoro nazionale, ma è specchio di una nuova divisione internazionale del lavoro in cui un tassello fondamentale è giocato dal mercato sommerso e da forme illegali del mercato capitalista che si inseriscono all’interno di dinamiche di globalizzazione contemporanee.

 

Lo sfruttamento dei sikh nell’agro pontino

Lavoro per circa 12 ore al giorno 7 giorni su 7 per circa 4 euro l’ora, senza pause – queste sono le premesse di un mercato del lavoro caratterizzato da condizioni contrattuali, trattamenti e retribuzioni discriminatorie, a cui si associano promesse di contrattualizzazione spesso mai realizzate, gravi situazioni di sfruttamento e in alcuni casi di schiavitù.  

 

Non solo, per fare fronte a ricatti e violenze dei propri padroni, spesso i lavoratori “braccianti” fanno ricorso al doping, unico modo per sopportare lo sfruttamento estremo e condizioni di lavoro disumane.

Si tratta di dinamiche ampiamente documentate e denunciate da un dossier pubblicato dalla onlus InMigrazione, co-fondata dallo stesso Omizzolo e frutto di una serie di interviste a lavoratori agricoli nella zona di Latina.

 

Per sopravvivere ai ritmi massacranti, i lavoratori sono spesso costretti a fare uso di stupefacenti e antidolorifici che permettono loro di sopportare la fatica, il dolore, la stanchezza, che permettono loro di sopravvivere. Riportiamo gli estratti di alcune interviste, consultabili interamente nel dossier.

 

“Io e amici prendiamo piccola sostanza per non sentire dolore. Prendiamo una o due volte quando pausa da lavoro. Poi andiamo a lavorare nei campi senza dolore. Io prendo per non sentire fatica e lavorare e poi prendere soldi fine mese. Altrimenti per me impossibile lavorare così tanto in campagna. Tu capisci? Troppo lavoro, troppo dolore a mani” (B. Singh)

 

“No tutti così. Solo pochi indiani prendono quella sostanza per non sentire dolore. Ma a loro serve per arrivare a fine mese e prendere soldi per famiglia. Tu capisci?” (K. Singh)

 

“Io e amici qualche volta prendiamo sostanze per lavorare. Io so che non è giusto… Io voglio cambiare lavoro ma crisi e o lavori così in campagna o no lavori. Io voglio andare via da qui. No piace tutto questo. Capisci tu?” (M. Singh)

 

“Padrone dice lavora e io prendo poco per lavorare meglio e non sentire dolore e fatica perché io devo lavorare. Tu mai lavorato in campagna per 15 ore al giorno?” (L. Singh)

 

Allargare lo spazio, il perimetro della libertà

La questione delle donne lavoratrici nell’agro pontino è una delle ultime piste di ricerca aperte da Omizzolo che, insieme a Margherita Romanelli, ha avviato un’indagine sulla femminilizzazione del caporalato agricolo. La componente femminile è particolarmente significativa, prima di tutto perché in oltre l’80% dei contratti che hanno a che fare con manodopera femminile si possono rintracciare elementi di irregolarità

 

A questo si aggiunge un elemento di ulteriore disparità all’interno del meccanismo di sfruttamento, insito nel fatto di essere soggetti socializzati come donne e quindi oggetto costante di abusi di diverso tipo, dalla violenza verbale, all’esercizio della violenza fisica, al ricatto rispetto a prestazioni sessuali da parte dei padroni.

 

Ma anche in questo caso il margine diventa, nella pratica di Omizzolo, luogo di liberazione, terreno di lotta, di riaffermazione e di nuova appartenenza. Come nel caso delle protagoniste di Libere per tutte: Anna, Manpreet, Italia, Ash sono donne che hanno reagito alzando la testa.

 

Verso una conclusione

Nell’ottobre 2016 il Parlamento italiano ha approvato la nuova legge sul caporalato, che prevede fra l’altro pene più severe per le aziende che si avvalgono dell’intermediazione illecita. E il governo ha promesso maggiori controlli: tra giugno e luglio del 2017 in provincia di Latina sono state controllate quattro aziende agricole e arrestati tre titolari. 

Nell’ottobre del 2019, al grido di «I nostri diritti dacceli qui!», centinaia di braccianti hanno riempito la piazza di Latina sostenuti dai sindacati Flai Cgil, Fai Cisl e Uil. La manifestazione, la prima autorganizzata dalla comunità indiana, ha visto la partecipazione dei lavoratori da tutta la provincia. 

Il sistema del caporalato, che governa le vite e le esistenze delle persone, può e deve essere messo in discussione. Seppure la nostra ricerca sia ancora lontana dall’approccio di Omizzolo, crediamo fortemente nell’impegno di ognuno e ognuna nella diffusione della giustizia e nella messa in discussione di un sistema in cui siamo implicati/e tutte e tutti noi.

L’intervista a Marco Omizzolo, a cui si fa riferimento in apertura all’articolo, verrà pubblicata nei prossimi mesi sui canali di Border Radio.

Alcune fonti: 

Daniela Sala, “Non abbiamo un datore di lavoro: abbiamo un padrone”: lo sfruttamento dei Sikh nell’Agro Pontino”, openmigration, 14 marzo 2018. Disponibile qui.

 

Legge n. 199 del 2016 per il contrasto al caporalato. Approfondimento qui.

 

Marco Omizzolo e Pina Sodano, “L’assimilazionismo e i lavoratori immigrati nell’agricoltura italiana. La comunità punjabi in Provincia di Latina”, CAMBIO, Anno V, Numero 10 Dicembre 2015. Disponibile qui.

 

Marco Omizzolo, Festival della migrazione, Il lavoro rende libere?, YouTube, 06 febbraio 2023. Disponibile qui. 

 

Marco Omizzolo, InMigrazione, Per motivi di giustizia – In Migrazione con Marco Omizzolo, YouTube, 28 marzo 2023, disponibile qui.